Che anno è, che giorno è

Per quanto riguarda la musica, mi pare che il 2009 sia stato un anno ucronico, in cui flussi musicali di varia provenienza hanno iniziato a convergere in una specie di tempo esploso, in cui la cronologia reale si confonde con una serie di altre successioni dei fatti. Mondi musicali dentro altri mondi musicali impacchettati dentro mondi immaginati e sognati, con un effetto allucinatorio fortissimo.
Prendiamo ad esempio i Fuck Buttons, già elogiati dal Duffo per il loro ultimo Tarot Sport. Lunghe canzoni in cui su battiti elementari e rumori di fondo si stendono tappeti melodici elementari che sembrano uscire da un mondo in cui il pop si innesta direttamente sul minimalismo e sul noise. Le canzoni dei Fuck Buttons sono melodiche eppure sono profondamente "out", una new age per generazioni post tutto, un elogio del modernariato elettronico e delle macchinette ronzanti. Cito da fonte autorevole " l'escalation sonora di ogni pezzo è talmente potente che ti appiattisce ogni percezione e manda il déjà vu a tenere buona compagnia al tuo io represso nel subconscio".
Ma passiamo a Ben Frost, australiano residente in Islanda, autore del fenomenale By The Throat. E l'ascoltatore è proprio preso per la gola, con una musica da colonna sonora che accompagna un film mentale in cui nella neve della Cosa di John Carpenter si aggirano branchi di lupi che ringhiano e ululano filtrati da un sintetizzatore. Musica minacciosa, che ricorda proprio le colonne sonore '80 di certi horror, come se Murcof avesse un gemello cattivo stile Covata Malefica (quella di Cronenberg, non il nostro blog). Frost dice di essersi ispirato a Disintegration dei Cure (i titoli degli utlimi dischi vengono da lì) e i suoi mondi sonori sublimi e rumorosi sono svuotati di anime umane e spazzati da venti postatomici. Immaginate i Sigur Ros musicare un film di Romero ambientato tra i ghiacci dell'Alaska (alla 30 giorni di buio) e avrete un'idea di By The Throat.
O ancora pensate alla vena psichedelica del cosiddetto Hypnagogic pop, la risposta americana alla hauntology, in un certo senso. Come ha detto bene David Keenan nell'articolo su The Wire che ha lanciato questo termine, si tratta di un'operazione sulla memoria e sull'amnesia, una feticizzazione del ricordo e del suono, centrata su una visione allucinata degli anni ottanta. Loop di tastieroni kitsch e giri di chitarra da rock classico che emergono da una coltre di disturbi radiofonici. Cassette piene di ronzii e soffi che sputano frammenti di musica da cartoni animati, sigle di telefilm macinate nel noise, linee vocali superzuccherose affondate in percussioni finto esotiche e giri di chitarra multicolori. Immaginate Woodstock se si fosse svolto in California nel 1984 o alle Hawaii, con Magnum P.I. come guru, i membri dell'A-team come pantheon e la musica new age delle cassette per meditare come inni sacri. E immaginate tutto questo registrato su una VHS e mescolato a vecchi filmati dei Boston e dei Fleetwood Mac. Elettronica analogica e teen-movie, distorsioni vocali ed Eddie Murphy, Molly Ringwald in un porno patinato e David Byrne vestito da preside a fare da anfitrione alla festa del liceo, copertine fotocopiate epalestre di bodybulding, psichedelia che simula degli anni ottanta inesistenti. Alcuni nomi: James Ferraro e Spencer Clark (che hanno iniziato tutto con gli Skaters), Vodka Soap, le da poco disciolte Pocahaunted, Emeralds, Monopoly Child Star, Lamborghini Crystal, Ducktails (omaggio ai Duck Tales disneyani). Il maglioncino e la capigliatura e i disegni appesi sul muro di James Ferraro valgono più di mille manifesti.
A questa "scena" viene anche riportato Oneohtrix Point Never, nato da genitori russi e autore di uno dei botti di fine anno con The Drifts, che raccoglie su cd i suoi ultimi tre dischi. Dire che si tratta di uno strano concept su un astronauta perso nello spazio che arriva su un pianeta in cui tutti indossano delle cuffie rende il tono. Come già nel caso dei Fuck Buttons, la musica di Oneohtrix Point Never è una specie di stato di alterazione percettiva permanente. Un elogio dei sintetizzatori e del pop più atmosferico. Una specie di techno se la techno fosse stata la colonna sonora del kitsch anni ottanta, oppure un krautrock spostato in un film alla St. Elmo's Fire. Loop musicali a volte sognanti e a volte iperscolpiti, una vena hip hop nella produzione e un amore viscerale per i suoni vintage danno vita all'ennesima rinascita della psichedelia spaziale.
Chiudo con Black to Comm, di Amburgo, che offre un'altra visione delle cose con il suo Alphabet 1968. Marc Richter, questo il suo vero nome, lavora solo con nastri e suoni trovati e con quelli crea paesaggi sonori malinconici. La sua è musica nebbiosa, che sembra nascere da un carillion nascosto nel fondo di una cassa di cianfrusaglie elttroniche. Melodie intercettate, voci catturate per caso con un'antenna direzionale. Anche qui la sensazione è quella di una colonna sonora, questa volta di un film di spionaggio o di fantascienza ambientato nell'Europa dell'Est, prima della caduta del muro. La conversazione e The Parallax View girati nelle vie di Mosca o di Berlino. Archi e dischi crepitanti, loop meccanici: l'idea di una melodia frammentata che esce da qualche recesso della memoria, come un episodio di Zaffiro e Acciaio ambientato in un capannone industriale alla metà degli anni ottanta, in cui incontrano Nikopol, il protagonista della Fiera degli immortali di Enki Bilal.
Tutta musica ipnagogica, allucinazione tra il sonno e la veglia, che sembra parlare a persone che non si ricordano più chi sono, cosa è successo, che anno è, che giorno è.

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