Uomini di ferro

C'è un tizio ricchissimo potentissimo e basso di statura. Gli piacciono le donne, ritiene che l'interesse privato – il suo – e l'interesse pubblico debbano coincidere. Adora i colpi di teatro e le grandi convention in cui può fare sfoggio di tutto il proprio delirio di onnipotenza. Non perde occasione di fare battute per ingraziarsi l'auditorio. Se poi ci sono delle ragazze, a portata di mano, state pur certi che qualche frase allusiva nei loro confronti verrà scoccata nel giro di pochi secondi. La sua simpatia maschera a malapena la sua volgarità. Si fa beffe degli organismi pubblici di controllo. La sua influenza è costruita da una rete di conoscenze nei giri giusti. Ha creato una mitologia del proprio successo imprenditoriale e la usa per dimostrare di essere al di sopra di ogni altro cittadino. Si circonda di belle donne e le mette, al momento opportuno, in posti di potere. Risponde solo a se stesso, e all'immagine di sè che ha dato al mondo. Tutto quello che odora anche lontanamente di comunismo gli fa saltare la mosca al naso. L'avversario per lui non va solo sconfitto, ma umiliato, esibito al mondo in tutta la sua pochezza.
Se smettessi di scrivere a questo punto, tutti - da questa parte delle Alpi almeno - assocerebbero queste frasi a una certa persona che, nel mondo reale, possiede queste caratteristiche. Proprio la settimana scorsa, uscendo dal cinema, mi sono reso conto di aver visto un intero film dedicato a un'altra persona che possiede tutte queste caratteristiche. Tony Stark è l'uomo di ferro. Non quello dell'omonimo film di Andrzej Wajda, quello della Marvel, protagonista appunto di Iron Man 2. Allora, andiamo con ordine. Tony Stark è interpretato da Robert Downey Jr. Che ha parecchie cose che lo rendono simpatico. E' l'attore hollywoodiano più riabilitato di tutti i tempi, con intere ere geologiche di lavori socialmente utili alle spalle. Nei film – credo per contratto – interpreta sempre personaggi sopra le righe, canaglie per le quali è impossibile non parteggiare e che bevono grandi quantità di alcol. Nella parte del giornalista old style in Zodiac, ad esempio, è stato assolutamente perfetto.
In Iron Man 2 Tony Stark è un personaggio che possiede tutte le caratteristiche di cui parlavo all'inizio. Il suo avversario – oltre a un rivale nel business che possiede tutte le sue stesse caratteristiche ma è molto più idiota e non ha nulla dello stile Stark – è un disgraziato che ha passato anni in una prigione sovietica. C'è il fortissimo sospetto che il padre di Stark abbia fregato alla grande il padre di questo disgraziato (l'unica indicazione in senso contrario viene da un tizio con un occhio solo, di nome Nick Fury che ha il cranio rasato e la faccia di Samuel L. Jackson e non so, ditemi voi, se saliste in treno e l'unico posto libero del vagone fosse accanto a uno che ha queste caratteristiche, in tutta onestà, vi siedereste accanto a lui o cambiereste vagone?) e che questo medesimo padre sia stato uno stronzo di dimensioni mondiali. Il disgraziato è Mickey Rourke. Scelta di casting geniale, perché Mickey è forse l'unico attore hollywoodiano che può avvicinarsi a Robert Downey Jr intento a piantare cespugli di rose nelle aiuole di una scuola elementare con un bottiglione di whisky nascosto nella tuta arancione e dirgli, come nella canzone di Paolo Conte, "Descansate niño, che continuo io". Mickey Rourke è questo Ivan Vanko, cioè il protagonista di The Wrestler con duecento tatuaggi da mafioso russo in più. Questo Vanko, all'inizio del film si vede morire il padre tra le braccia, in un tipico interno russo – vale a dire un tugurio fiocamente illuminato. Il padre, in una scena degna di Sokurov, dice al suo figliolo: "Non ho un cazzo di soldi da lasciarti, ma ti lascio il mio sapere". Si tratta dell'ormai celebratissimo know-how, che nel suo caso è il progetto sviluppato dal padre russo assieme al padre Stark, quello che con ogni probabilità Stark ha fregato alla grande, con la sola campana contraria di Samuel L. Jackson con un occhio solo. Ivan ha passato una parte della sua vita in prigione e l'altra a farsi tatuare (queste due parti della sua vita potrebbero coincidere, lo so, ma mi piace contemplare quest'altra possibilità). Non è chiaro in che breve porzione rimanente della sua esistenza abbia potuto studiare fisica. A meno che, mentre Tony Stark si scopava tutte le ragazze di Stanford e del MIT, prendendo voti strepitosi in ogni materia, Ivan, tra un tatuaggio e l'altro, abbia passato qualche anno in compagnia di Andrej Sacharov e di qualche altro fisico di vaglia che, com'è noto, una capatina in siberia o in carcere di solito se la facevano.
Mickey Rourke, capelli lunghi da Wrestler, spalle enormi da Wrestler, baffetti e barbetta da Wrestler, tatuaggi da Viggo Mortensen nella Promessa dell'Assassino, stecchino in bocca da ras del quartiere, ha dunque tutte le ragioni di questo mondo per essere incazzato. È povero, è intelligente, è tatuato, ama il suo pappagallino, vive in un tugurio male illuminato, gli è morto il padre tra le braccia. Se avesse avuto anche una sola delle opportunità di Tony Stark avrebbe vinto un paio di premi Nobel. Ed ecco il punto. In qualsiasi film della hollywood classica o anche solo di un paio d'anni fa, Ivan Vanko sarebbe stato il vero protagonista. L'uomo fatto da sè contro l'uomo fatto dal padre stronzo. Il povero di genio contro il ricco arrogante. L'uomo qualunque contro il privilegiato. Quello che ama gli animali contro quello che pensa solo a scoparsi le tettone. John Belushi contro i figli di papà in Animal House. I poveri immigrati europei contro i robber baron nei Cancelli del cielo. Il simpatico mascalzone Burt Reynolds contro il padre e il figlio ricchi sfondati in Il bandito e la madama. Han Solo e Chewbacca contro il liscio e stilosissimo Darth Vader. I giornalisti contro Nixon. Il cinema di Peckinpah contro il resto del mondo. Jena Plissken contro i poteri forti in Fuga da New York. Garrone e Franti contro Carlo Nobis. Solo che qui tutto ci viene presentato al contrario. Un riccone che ha tutto e possiede per di più superpoteri tecnologici dovrebbe risultarci simpatico. Uno che colleziona arte contemporanea perché è un buon investimento e poi stacca dal muro il suo Barnett Newman per metterci sopra un ritratto di se stesso con l'armatura da Iron Man disegnato in stile copertina di rivista sci-fi degli anni cinquanta, una cosa tra Flash Gordon e Amazing Stories.
E qua vengo al punto. La cosa è così evidente che non posso pensare che il regista non l'abbia fatto di proposito. Che dietro questa lotta tra buoni e cattivi assolutamente manichea si nasconda una versione perversamente deformata di un film come il Dark Knight di Nolan. Lì si sosteneva la necessità della menzogna per reggere l'impianto sociale, con il sacrificio di Batman che accettava di passare per "cattivo" pur di lasciare intatta la credenza della gente nei principi del vivere comune. Qui, abbiamo invece una specie di estatica celebrazione del capitale tecnologico che non ha più bisogno di mentire, gli basta mostrarsi: il padre ricchissimo che si è sempre comportato da stronzo con il figlio (unica eccezione un filmato che era nelle mani del solito Nick Fury e che, in un qualsiasi altro film sarebbe puzzato falso lontano un miglio, ma noi, chissà perché ci fidiamo di un incrocio tra un un pappone e un killer) e che ha lasciato in eredità al rampollo debosciato una vagonata di soldi e di mezzi batte comunque il padre alcolizzato che muore tra le braccia del figlio. Nolan, autore che sa giocare benissimo con la superficie delle cose e con le illusioni, aveva fatto un film kierkegaardiano, in cui il salto etico nella parte del cattivo faceva sì che con tutta la sua ricchezza Batman fosse comunque destinato a rimanere una figura tragica. E non per niente, tra Batman e Joker c'era una profonda connessione interiore. Erano entrambi degli "unici": il primo esistenzialista, il secondo stirneriano. Tony Stark è un figlio di papà che commette ogni volta degli errori veniali e che comunque cade sempre in piedi.
Questa ideologia - che Žižek definirebbe cinica - viene tutta fuori nella celebrazione estetica. Il film è una specie di elogio dell'arte americana: da Newman alle copertine di fantascienza, dall'estetica tondeggiante delle macchine americane al trionfo pop dei juke box anni '50. La tipica architettura retrofuturista dei caffè con la ciambella sopra, l'immenso expò in stile disneyano. La pop art e i quadri di avanguardia astratti (ricordiamoci che una teoria, piuttosto realistica, sostiene che la scelta da parte delle istituzioni americane di sovvenzionare l'arte astratta, da Rothko a Pollock, avesse la finalità non tanto nascosta di tenere lontano gli occhi americani e europei dal realismo socialista. Ogni volta che ci diciamo che Pollock si fotte Guttuso, perché è indubbio che se lo fotta, pensiamo bene alle implicazioni di questo pensiero). Le Harley Davidson e le copertine di Rolling Stone, di Wired e di Times come vetrine della celebrazione di Tony Stark. Nessun criterio di valutazione estetica è presente nel film che non faccia parte del retaggio estetico-artistico americano. Iron Man 2 è una storia di eredità, che sembra dirci che l'unica discendenza giusta è quella americana. Attenzione, simpatia a parte, siamo del tutto così a nostro agio nel dirci che il quadro simbolico-narrativo con il quale confrontarci sia quello creato da un tizio con i baffi di nome Stan Lee? A un certo punto c'è una battuta sull'Ulisse di Joyce, pronunciata dall'alter ego volgare di Stark. Io vorrei dire che la posta in gioco di questo film è una specie di distruzione del modernismo e delle avanguardie europee e russe da parte del modernismo pop e del postmodernismo americano. Stan Lee contro Joyce; l'estetica anni '50 contro il Romanzo Russo. Oppure, per non fare troppo lo snob europeo, Bill Gates (e Steve Jobs) contro il Grande Gatsby. Come dire che Vanko sarebbe stato bene in Moby Dick o in Dostoevskij, mentre Stark sta benissimo in un fumetto Marvel. Ma solo lì dentro. E non è un caso, forse, che molta arte contemporanea, oggi, quella che rifiuta la logica del pop e del kitsch a tutti i costi, quella che non sembra fatta per finire in un articolo di Rolling Stone o di XL, sembri venire fuori più dalla catapecchia fiocamente illuminata di Ivan Vanko che quella versione i-techonologica di Xanadu che è villa Stark.

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