Gli uomini in nero

Prendiamo l’inizio di un libro. Il vento del nord si carica soffiando sul mare d’Irlanda, corre tra le orecchie dei gatti del Cheshire e, passando attraverso il finestrino, batte sugli occhi di un uomo seduto in un furgone Bedford: L’uomo non batteva ciglio. Il libro si intitola Posizione di tiro e, in poche righe Jean-Patrick Manchette ci cattura e trasporta nel suo universo. Siamo nella tela del ragno e il ragno, l’uomo nel Bedford, si chiama Martin Terrier. Di mestiere fa il killer.

Il romanzo nero in Francia esisteva già da parecchi anni. Georges Simenon, aveva scritto libri duri e taglienti come L’uomo che guardava passare i treni e In caso di disgrazia. Lèo Malet anarchico, surrealista, creatore del detective privato Nestor Burma, con la sua trilogia nera aveva cantato il destino tragico degli sbandati parigini, tra rapine, sparatorie e tradimenti. La vita è uno schifo, Il sole non è per noi e Nodo nelle budella sono le tappe di una discesa nel ventre ribollente della città e nelle orecchie risuonano ancora gli spari della famigerata banda Bonnot. Il romanzo nero con Malet comincia a diventare uno strumento politico. In Marie Dubois Jacques Audiberti rincorreva il passato di una donna a partire dal ritrovamento del suo cadavere, anticipando autori come James Ellroy o Derek Raymond.

Con Manchette, però, le cose cambiano. Il romanzo nero, che in Francia chiamano polar, viene rivoluzionato. La scrittura non è più indagine psicologica o resoconto di una tragedia privata, ma diventa gesto politico, dissezione spietata di un mondo dominato dalla merce e dall’ipocrisia del potere. Se Malet aveva aperto la strada, Manchette radicalizza la vocazione anarichica della scrittura di genere, unendo alla lezione di Hammett – la scrittura prosciugata, scabra, secca come un osso umano – la lezione formale del Nouveau Roman degli anni sessanta. Un’alternanza di controllo formale e di violenza incontrollata che è, prima di tutto, un movimento di eversione della normalità letteraria. I romanzi di Manchette non sono libri di protesta, non troviamo l’utopia di una società giusta o di personaggi riconciliati. Le scosse provenienti dal Maggio ’68 sono ormai ridotte a schegge impazzite e l’immaginazione, invece di andare al potere, si trasforma in un’allucinazione paranoica. In Nada (1972), ad esempio, un gruppo di terroristi incoscienti e con la testa piena di frasi fatte rapiscono un politico e si asserragliano in una casa di campagna. Finirà malissimo, in un bagno di sangue, e il lettore non sa se odiare di più i giovani criminali o i professionisti dell’ordine che li affrontano agli ordini di un ufficiale di polizia che cerca il massacro a tutti i costi.

Redattore di riviste satiriche, critico letterario cinematografico (i suoi scritti sul cinema, che spaziano da John Ford a Hitchcock, sono raccolti in Les yeux de la momie) oltre che autore, sotto pseudonimo, di romanzi erotici e per ragazzi, Manchette raccoglie nei suoi romanzi l’eredità stilistica di Dashiel Hammett, inseguendo una scrittura asciutta e precisa, con un ritmo implacabile, dettato dagli spari e dai gesti nervosi dei protagonisti. Si è spesso parlato di un behaviorismo di Manchette, del suo tentativo di azzerare lo scavo psicologico per lasciare spazio all’oggettività di una descrizione che si propone, prima di tutto, di operare uno svuotamento di senso. I personaggi sono come gusci abbandonati da qualsiasi motivazione psicologica e la loro interiorità traspare solo dalla descirzione minuziosa dei gesti che compiono. Se Hammett è il maestro, Manchette non può che tradirne l’ottimismo narrativo. Il neo-polar, infatti, racconta storie senza più il sogno di ridare, con la scrittura, un ordine alle cose, fosse pure cinico e disincantanto. La Francia degli anni sessanta non è l’America di trent’anni prima. Il potere del capitale è ormai una piovra tentacolare che penetra in ogni anfratto della società. Manchette lo sa bene, e ce lo dice in un romanzo come L’affaire N’Gustro, del 1971, ispirato al caso Ben Barka, politico marocchino in esilio a Parigi sequestrato con la complicità della polizia francese e mai più ritrovato. Accanto alla lezione della scuola americana troviamo anche l’influenza di Flaubert. Per Manchette lo stile diventa ben presto una mappa su cui distribuire coordinate astratte. La scrittura di genere viene fatta implodere nella continua rilettura di alcuni archetipi del noir: l’uomo qualunque che impara a difendersi suo malgrado (Piccolo Blues, del 1976), l’investigatore privato scalcinato (il Tarpon di Mucchi di cadaveri, anche questo del 1976, che sembra uscire dalla Domenica della vita di Queneau, ma che in realtà è già passato attraverso il fuoco del potere: è un uomo infame alla Foucault, un guastatore godardiano). Manchette cerca di esaurire il genere, vuole consumare tutte le possibilità combinatorie, C’è qualcosa, in lui, che lo avvicina a Perec, ai romanzi dell Oulipo: l’idea che la scrittura, per funzionare, deve darsi un codice e cercare di eccederlo e scardinarlo continuamente. I personaggi si consumano, sono figure ascetiche che assomigliano a samurai o a mistici orientali. Nel 1981, dopo aver scritto un’impressionante serie di capolavori (ricordo almeno Fatale, del 1977, con una straordinaria dark lady che lascia perdere le sottigliezze del noir cinematografico per imbracciare fucili a pallettoni) Manchette pubblica Posizione di tiro, probabilmente il suo capolavoro.

Con la parabola amara del killer Martin Terrier – deciso a uscire dal giro mentre alcune persone hanno tutte le intenzioni di impedirglielo – Manchette interrompe il proprio percorso. La perfezione della scrittura e la potenza di fuoco delle sue pagine rendono ormai difficile continuare senza ripetersi. Per quattordici anni Manchette si ferma a riflettere, cerca nuove vie e nuove motivazioni. Finalmente decide di ricominciare a raccontare, progettando un ciclo di romanzi sulla storia recente della Francia. Muore nel 1995, a cinquantatre anni, riconosciuto come maestro dalle nuove generazioni di scrittori e lasciando incompiuto il primo romanzo del progetto che aveva in mente, La Princesse de sang.

L’eredità di Manchette è stata raccolta, almeno in parte, da molti autori, e il paesaggio letterario francese sembra decisamente dipinto di nero. Pensiamo a Didier Daeninckx, che punta sulla critica sociale e storica con opere di matrice fortemente politica, al punto da suscitare polemiche sterili con altri colleghi. Daeninckx va a caccia degli scheletri nell’armadio della Francia, scheletri che spesso si chiamano collaborazionismo e Algeria (da leggere almeno A futura memoria e La morte non dimentica nessuno). Caso a parte è quello di Jean-Bernard Pouy, creatore della serie del “Polipo”. Le Poulpe è uno scalcinato giornalista sempre pronto a mettersi in viaggio e ad immischiarsi in questioni pericolose, dalle dittature in America Latina alle vendette antisemite.
Le avventure di questo personaggio sono raccontate da autori diversi che si passano la mano e riprendono la creatura di Pouy adattandola alle proprie predilezioni stilistiche e tematiche. Ma la grandezza irriverente di Pouy emerge nella delirante deriva caotica del dittico Spinoza encule Hegel e A sec: descrizione di un mondo alla Mad Max (o alla Russ Meyer) in cui bande di motociclisti si fanno la pelle su e giù per la Francia nel nome di filosofi assunti come feticcio.

Meno politicizzati sono i romanzi di Thierry Jonquet, che ha creato una squadra investigativa alle prese con indagini sgradevoli e complicate. Jonquet riprende la struttura “collettiva” resa celebre dai libri di Ed McBain, distribuendo la narrazione tra un gran numero di personaggi. Non c’è un protagonista che spicca sugli altri, ogni membro della squadra ricopre un ruolo ben preciso e contribuisce alla riuscita del caso. In Italia si possono trovare I cercatori d’oro e Moloch: nonostante una scrittura piuttosto tradizionale e storie prive di particolare impatto, rimangono senza dubbio dei buoni polar. Nerissima è poi la vicenda raccontata da Pascal Dessaint nel suo Bocca d’ombra, splendido romanzo in bilico tra Hitchcock e Freud, narrato da più punti di vista e con un finale raggelante. In italia è stato pubblicato di recente.

Il classico tema del passato che ritorna come una cambiale mai pagata segna i libri del corpulento Patrick Raynal, direttore della mitica Série Noire, che ha scritto un romanzo sotto il segno di Orson Welles (Nato da figlio sconosciuto), un thriller on the road (Sosta d’emergenza) e un polar in trasferta americana (Cercando Sam). È soprattutto con quest’ultimo libro che l’autore scavalca le regole del genere, trasformando il noir in un omaggio sentito ai sogni e alle sconfitte di una generazione: un libraio parigino si mette in viaggio con un’urna cineraria per rispettare un vecchio giuramento. Percorrerà le highways da New York a Memphis e dal Montana al confine messicano, in una corsa attraverso i luoghi del mito americano tra blues, traffici illeciti e incontri inattesi. In ogni caso, insegnano Dessaint e Raynal, fare promesse agli amici può portare un mare di guai e occorre guardarsi dalle offerte troppo generose. C’è sempre sotto qualcosa.

Da noi sono ormai molto conosciuti Daniel Pennac e Jean-Claude Izzo. Il primo, con la fortunatissima saga della tribù Malaussène, ha creato un universo multicolore e multirazziale in cui le trame poliziesche e “nere” si innestano su vicende strampalate e spesso irresistibilmente comiche. Dal Paradiso degli orchi all’ultimo (per ora) La passione secondo Therese i cinque romanzi della serie immergono il lettore in un vortice di situazioni surreali che coinvolgono la famiglia del protagonista, Benjamin Malaussène. Che, per chi non lo sapesse, lavora come capro espiatorio in una casa editrice di Parigi. Se Pennac ambienta le proprie storie nel vitale e scoppiatissimo quartiere di Belleville, Izzo preferisce la caotica Marsiglia, osservata attraverso lo sguardo amaro del suo alter ego Fabio Montale (nella trilogia Casino totale, Chourmo, Solea): la scrittura di Izzo è un sismografo che rileva e denuncia le tensioni sotterranee che percorrono la sua città. Scatenato e umoristico oppure disincantato e crudele, il polar continua a scavare con ostinazione nelle pieghe dei paesaggi urbani alla ricerca di tracce di vita.

Serge Quadruppani, che fa da interecessore tra Francia e Italia, oltre a tradurre in francese Camilleri, Lucarelli ed Evangelisti, fonde nei suoi romanzi una scrittura distaccata e appassionata assieme. Sembra un entomolgo, preciso nella scrittura ma innamorato del proprio oggetto di studio. Ne La breve estate dei Colchici, ad esempio, riprende il topos noir della vendetta dell’idealista che ha pagato per tutti, facendolo entrare in rotta di collisione con la storia della crescita e della maturazione di una ragazza. Mentre segue l’irruzione del passato nella vita di una coppia di ex rivoluzionari convertiti allo squallore neoborghese Quadruppani esplora il rapporto tra la figlia dei due e una figura paterna piuttosto particolare. Ne viene fuori una specie di “noir sulla crescita”, un po’ come quello che ha scritto Niccolò Ammaniti con il suo Io non ho paura. Il meccanismo nero macina tutti i protagonisiti, ma Quadruppani fa entare un filo d’aria nel mondo sotto vuoto di Manchette: non una speranza, ma l’idea che nel gioco dei rapporti umani ci sia ancora spazio per una forma di esperienza positiva.

Tuttavia la forza narrativa di Manchette ha probabilmente un solo grande erede. Di origine croata, con un’esperienza da musicista punk alle spalle, cresciuto a dosi massicce di fantascienza (Dick, Ballard, Spinrad), irrompe nello scenario francese Maurice G. Dantec. Dopo un romanzo d’impianto ancora tradizionale, La sirena rossa, in cui seguiamo il viaggio attraverso l’Europa di un mercenario e di una ragazzina, Dantec spara il suo capolavoro: Le radici del male, del 1995, è un romanzo torrenziale che mescola thriller e fantascienza, portando alla definizione di uno strano ibrido chiamato Cyberpolar. La vicenda parte con la “soggettiva” delirante della mente di un serial killer per poi virare verso le scienze cognitive e l’intelligenza artificiale. Prendendo le mosse da una serie di crimini efferati viene alla luce un complotto più ampio e articolato che coinvolge personaggi insospettabili. La scrittura velocissima ed evocativa di Dantec mescola riflessioni filosofiche a scoppi improvvisi di violenza, mettendo al centro del romanzo una macchina, la neuromatrice, capace di simulare i processi cognitivi degli individui per seguirne le tracce e prevederne le mosse. Con uno stile violentemente musicale, in bilico tra gli Stooges, Wagner e i Kraftwerk, Dantec non decostruisce i codici, li mette in loop, procede per accumulo e sovrapposzione di sequenze narrative. La sua è una scrittura forse troppo carica, indigesta, contorta, come capita con certe pagine di Gibson. Ma l’effetto sul lettore è ipnotico: lo fa sprofondare in un mondo in cui la traiettoria delle parole si contrae nelle piste neuronali dei protagonisti.

Il romanzo nero come strumento per esplorare non solo il rapporto tra individuo e società (come in Manchette), ma anche il legame mente/corpo. Un legame che in Dantec assume connotazioni spinoziane e deleuziane: una combinatoria di potenze che crea e disfa forme intermitenti e fluide: si passa dall’etica alla strategia Con il successivo Babylon babies Dantec si sposta decisamente verso la fantascienza cyberpunk, mantenendo la potenza visionaria della scrittura, ma perdendo un po’ di vista la compattezza narrativa del libro precedente. Amato e odiato, Dantec attraversa da nomade, rimanendo aggrappato al suo stile, tutte le zone di confine tra forme espressive diverse. Ha scritto saggi (raccolti in Theatre des operations) ha collaborato col musicista d’avanguardia Richard Pinhas e con lo scrittore Norman Spinrad per il progetto Schizotrope, una sorta di tecno-reading deleuziano distorto e allucinato. Vive in Canada e ha scelto la distanza come strategia di guerriglia culturale. Per qualcuno è un anarchico di destra, per altri l’unico scrittore dal quale ci si può attendere ancora il grande botto. Rimane comunque un autore di culto per le nuove generazioni, uno dei pochi scrittori ad aver raccolto e rilanciato la sfida di Manchette: il romanzo come sguardo lucido e spietato sulla realtà.

Tutti questi autori pubblicano prevalentemente nelle più famose collane dedicate al Polar. Ricordo solo le edizioni Le Fleuve Noir e Baleine oltre, ovviamente, alla mitica Série Noire di Gallimard. In italiano i libri di Jean-Patrick Manchette e Cercando Sam di Patrick Raynal si possono recuperare in edizione Einaudi. La collana Euronoir di Hobby & Work, grazie a Luigi Bernardi, ha presentato ai lettori italiani Dantec, Dessaint, Jonquet, Raynal. Daeninckx è stato pubblicato in Italia da Mondadori, Feltrinelli e Donzelli. I romanzi di Pennac si trovano in edizione Feltrinelli, mentre E/O ha tradotto Jean-Claude Izzo. La trilogia nera di Lèo Malet è stat da pubblicata da Fazi Editore, che sta ora sfornando il ciclo hard boiled di Nestor Burma. L’opera completa di Simenon, con tutti i romanzi senza il commissario Maigret, sta uscendo in edizione Adelphi e Meridiano Zero ha pubblicato Marie Dubois di Audiberti. Di Serge Quadruppani è possibile trovare i romanzi in edizione Mondadori.

Per un assaggio, è uscita anni fa la raccolta Parigi, Ville Noire, con racconti di Dantec, Daeninckx, Pouy e altri (Hobby & Work).

Fondamentale (e abbondantemente campionata in queste pagine) la ricognizione di Valerio Evangelisti nel numero 12 di Pulp, Marzo-Aprile 1998. Di recente Evangelisti ha scritto anche la postfazione a Mucchi di cadaveri di J.P. Manchette (Einaudi).

Dal primo romanzo di Dantec, La sirena rossa è stato recentemente tratto un film diretto da Jean-Marc Barr e interpretato, tra gli altri, da Asia Argento.
by alunno Proserpio

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