A est verso Venere

Che la fantascienza sia uno dei terreni privilegiati della propaganda al cinema era un fatto noto. Il terrore indotto dai mostri volanti e dalle creature dello spazio dei magnifici anni cinquanta era il riflesso diretto del clima plumbeo della guerra fredda. La minaccia russa, trasfigurata dalla paranoia maccartista, diventava sorgente di terrori archetipici e riattivava la paura dell’alieno facendo diventare il comunista cattivo una vera e propria cosa dall’altro mondo. Tutto questo lo ha raccontato splendidamente Joe Dante in Matinèe, in cui la storia di un regista di serie z tanto geniale quanto cialtrone si intrecciava al senso di minaccia incombente legato alla crisi dei missili di Cuba. La fine del mondo sembrava dietro l’angolo e al cinema i ragazzini americani facevano le prove generali dell’apocalisse (proprio come in Giappone l’apocalisse atomica, arrivata troppo in fretta per essere annunciata, veniva ripetuta all’infinito nelle mutazioni e nelle lotte di mostri, da Godzilla a Matango, che hanno fatto la storia della fantascienza). Perciò non stupisce che anche oltre la cortina di ferro, poco lontano dal muro, la fantascienza fosse diventata occasione di propaganda e strumento di lotta ideologica. Formidabile il caso di Sojux 111- Il Pianeta Morto (in orginale La Stella Silenziosa), del 1960, diretto da Kurt Maetzig. La storia (tratta da un racconto del grande Stanislaw Lem) è esemplare di una fantascienza sociale, vicina a certi racconti giapponesi, a metà tra internazionalismo comunista e culto di un’auspicata pax rossa. La trama è presto detta: un gruppo di astronauti viene inviato su Venere per spiegare il mistero legato alla scoperta di un arcano manufatto spaziale. Sulla superficie del Pianeta morto (uno dei titoli con cui il film uscì in Italia, l’altro era Terrore su Venere) trovano i segni di un apocalisse nucleare che forse servirà da monito ai terrestri e li spingerà al disarmo. Lo spettatore occidentale davanti a un film come questo vive una specie di shock culturale: alla fantascienza guerriera degli USA si sostituisce una visione del mondo in cui la scienza è unicamente strumento di progresso e in cui i team di scienziati sono rigorosamente internazionali (tedeschi, ungheresi, russi, ma anche cinesi, giapponesi, africani). E c’è persino un americano, solido e di buon senso, anche se non troppo sveglio. La squadra multicolore dei cosmonauti sembra uscita dalle copertine dei primi dischi dei Kraftwerk. Quella di Soyux 111 è una fantascienza kitsch e irresistibilmente low tech: 8 anni prima di Kubrick gli interni pop sono già usciti dal campo di recupero anni novanta. Good Bye Lenin prima del crollo del muro, con frotte di neri (probabilmente angolani o etiopi in trasferta di studio tra Lipsia e Mosca) a simboleggiare il sogno di uguaglianza del comunismo realizzato. Utopia rovesciata, come sottosopra era quella americana, ma fa piacere vedere, tra interni che anticipano a sorpresa il decor di Alien, ciuffi impomatati di tedeschi dell’Est e cappelli bianchi da indiani (in rappresentanza dei paesi non allineati) che esaltano il Patto di Varsavia dal volto umano. Non mancano eroismi, blob ed elettronica d’antan. Nella splendida edizione No Shame, (primo cofanetto Stelle rosse, con altri due film coevi) c’è anche un inquietante finale alternativo italiano: tagliate le scene del lieto fine, una voice over recita un peana per i cosmonauti morti su un fondo blu fisso. Incomprensibile scelta distributiva o tentativo di boicottaggio della CIA?

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