Playball!!!

Per uno che ha giocato a baseball in Italia (io ho preso palline al volo e lanci pazzi sulla pancia per 15 anni, da quando ne avevo 10) è inevitabile almeno una volta, ma più probabilmente migliaia, sentirsi rivolgere la fatidica domanda: ma tu sei lanciatore o battitore? I primi anni cerchi di spiegare bene all'interlocutore la banale differenza e di dare un'infarinatura delle regole cercando di rimarcare velatamente la stupidità del quesito. Poi passa il tempo e cominci a stufarti ed eviti abilmente di dare risposta ad una tal cazzata. Dopo una decina d'anni rispondi istantaneamente, e con un bel sorriso sulla faccia, battitore oppure lanciatore, a seconda se te lo chiede una ragazza o qualcun altro. Le ragazze preferiscono i battitori.
Nonostante l'incomprensione che ci circondava, noi giocatori di baseball italiani potevamo contare su una piccola ma significativa rivincita, una cosa che a quelli che giocavano a calcio è sempre mancata. Noi tornavamo a casa, con le casacche sporche di erba e terra rossa e ci sedevamo davanti alla tv a vedere una marea di film e telefilm americani e di cartoni giapponesi dove il baseball era il centro di tutto. Altro che il calcio, sport nazional(istico) popolare che in Italia può vantare capolavori filmici quali Mezzo destro e mezzo sinistro e L'allenatore nel pallone.
Quella che segue è una piccola selezione dei film americani sul baseball che hanno costellato la mia gioventù fuori dal diamante. In realtà questo fiume in piena ha sempre alimentato l'invidia verso i ragazzini americani e giapponesi che, nella mia mente, trovavano sempre qualcuno con cui giocare in strada, fare una squadra, vincere la Little League. Poi però pensavo a quelli che giocavano a rugby sul campo di patate dietro la distilleria Stock e subito mi tornava il buon umore, prendevo il guantone e andavo al campo a far finta di essere Tommy la Stella dei Giants.
8 uomini fuori Psicodramma collettivo, non solo per la vicenda degli otto giocatori dei White Sox che furono squalificati a vita per un giro di scommesse, compreso “Shoeless” Joe Jackson, ma per tutta la nazione che dovette sciacquare in pubblico i panni sporchi. John Cusak continua ad avere sempre la stessa espressione da quando ha iniziato teenager negli anni '80, film dopo film. Non che sia un cattivo attore ma ti aspetti che da un momento all'altro prenda in mano un grammofono e lo tenga acceso sopra la testa.
L'uomo dei sogni Mistico, quasi religioso, anche se in realtà parla di letteratura e memoria collettiva. Il baseball accomuna tutti, almeno in America. Tutti quelli che hanno indossato un guantone alla fine vanno a giocare nell'aldilà, aldilà di un campo di mais. Le file di piante di pannocchia nell'immaginario americano costituiscono il confine tra la realtà conosciuta e il mistero. Ritorna Shoeless Joe Jackson, d'altronde a Kevin Costner gliel'avevano detto: “Se lo costruisci lui tornerà”.
Bull Durham Il film più filosofico: “il baseball è un gioco molto semplice. Lanci la palla, prendi la palla e colpisci la palla. A volte vinci, a volte perdi e a volte piove”. Kevin Costner nel secondo grande ruolo della carriera, il primo è naturalmente quello dell'amico che si suicida all'inizio de Il Grande Freddo e di cui si vedono solo i polsi tagliati.
Che botte se incontri gli Orsi Io volevo essere uno degli Orsi. Volevo avere Tatum O'Neal come compagna di squadra, anche se alla fine degli allenamenti andava via sul sellino della moto di Jackie Earle Haley. Volevo pestarmi con Tanner Boyle e mangiare le merendine di nascosto con Engelberg. Ma soprattutto volevo avere Buttermaker come allenatore.
Mr Baseball Magnum PI ha sempre amato giocare a baseball (in realtà in una puntata si vede una partita ma trattasi di softball) quindi chi meglio di Tom Selleck poteva interpretare il giocatore a fine carriera, fanfarone e americano al punto giusto da risultare arrogante, che viene venduto ai Dragons. Peccato che siano i Chunichi Dragons di Nagoya, 230 km da Tokyo. Un Lost in Translation divertente. Magari alla fine Tom non dimostrerà grande apprezzamento per la cultura giapponese, tranne per la geisha di turno nonché figlia dell'allenatore, ma porterà rispetto per il baseball giocato a Tokyo.
Il migliore Come ebbi già modo di dire quando scrissi questa piccola recensione del libro di Malamud da cui è tratto, questo film è la degna immagine del periodo storico in cui è stato realizzato: la trama e soprattutto il finale del libro vengono letteralmente stravolti con un'overdose di ottimismo reganiano. Rimanendo al film comunque, bisogna dire che alcune scene si stagliano nella mente di chi ama questo sport, come quando Roy sbatacchia talmente forte che non fa fuoricampo ma scuoia letteralmente la pallina o quando lancia e sfonda la rete di protezione facendo una smorfia come a dire “una volta lanciavo meglio”. Durante tutto il film si percepisce l'epica di questo sport. La critica non ha apprezzato molto questo film ed è per questo che non ha ricevuto molti premi, eppure uno lo meritava senza dubbio. Far passare Robert Redford, all'epoca quasi cinquantenne, per un adolescente di belle speranze all'inizio del film, valeva certamente un oscar per gli effetti speciali.
La mascotte Film che ogni tanto spunta dalla nebbia dei miei ricordi. La mascotte del titolo altri non è che Gary Coleman, pace all'anima sua che possa reincarnarsi nel prossimo Kareem Abdul Jabbar, a quell'epoca ancora bambino che interpretava bambini. La storia è il remake di un classicone americano sul baseball degli anni '50 e narra le vicissitudini di un ex giocatore povero e del suo marmocchio che sembra nato per fare l'allenatore in Major League. Per la sua versione capellona basettona del 1979 la produzione Disney punta tutto sulle guanciotte pienotte al cioccolato di Arnold che, dopo un anno di Different Strokes (Il mio amico Arnold), ha già instillato nella seconda generazione WASP quel tanto di simpatia verso il black people che trent'anni dopo risulterà determinante per portare Barack “Steve Urkel” Obama alla Casa Bianca.
Major League Il film è divertente e i personaggi sono fuori al punto giusto, compreso Charlie “Estevez” Sheen, ma la storia è veramente troppo inverosimile. Se è plausibile che la proprietaria di una squadra voglia spostare la franchigia in un'altra città a causa dei magri incassi, che per mettere in pratica questo piano venda tutti i giocatori e assuma gente a fine carriera, scarti, dilettanti ed ex galeotti, che i suddetti una volta scoperto il piano per dispetto vincano il campionato riempiendo lo stadio di spettatori, non è assolutamente realistico che questa squadra di brocchi vincenti siano i Cleveland Indians, che se esistesse la retrocessione sarebbe da un bel pezzo in Lega Pro Girone B.

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