Joe Sacco è un reporter “grafico” free lance, e, come se non bastasse, squattrinato. Non può permettersi di viaggiare nel centro dell'azione né, tantomeno, di contattare gli informatori giusti. Pertanto sceglie di perlustrare i margini della cronaca, ricavando storie dagli scampoli che le pattuglie dei media hanno abbandonato sul terreno prima di dirigersi verso altre guerre.
Eccolo quindi a Sarajevo nel 1995, a pochi mesi dagli accordi di Dayton e a pochi passi da quel che rimane del fronte, in un Holiday Inn perforato dalle granate.
I giornalisti importanti se ne sono già andati: la miniera delle tragedie si è esaurita ed è rimasto solo il silenzio.
Nel buio della hall però c'è ancora qualcuno, di fronte ad un posacenere mezzo pieno e una pila di biglietti da visita: è Neven che aspetta un compratore per i suoi ricordi. La guerra gli ha preso molto e lui sta cercando di guadagnare un altro pezzo di vita con il poco che gli è rimasto. Di mestiere fa il fixer, cioè colui che i giornalisti incaricano di procurare contatti per ottenere informazioni e interviste.
Ma presto Joe capisce che Neven stesso è la chiave per indagare le pieghe più oscure della guerra dei balcani. Tanto per cominciare, è un serbo di Sarajevo che ha combattuto per la salvezza della Bosnia: nella sintassi semplificata della storia quindi era dalla parte dei buoni. Il corpo di cui aveva fatto parte erano i “berretti verdi” (ricorda niente?), braccio armato del partito nazionalista musulmano, costituito per affrontare i gruppi paramilitari appoggiati dal partito nazionalista serbo.
E qui le cose cominciano a complicarsi: perchè un serbo nei “berretti verdi”?
"Mi feci una domanda: da che parte sto? Sono un serbo, lo sai. E decisi di puntare le mie carte sulla Bosnia. Perchè avevo sempre pensato a me stesso come un nazionalista serbo. Sono nazionalista nel senso che amo la mia nazione. Ma non odio nessuno.”
Frastornati? I TG della sera avevano convinto molti che: “Nazionalisti serbi uguale cattivi, musulmani uguale buoni”. Ma gli esseri umani (per il diletto degli statistici) rifiutano di schierarsi in categorie deterministiche: per molti il sillogismo “sono serbo, quindi è logico che combatta per la Serbia” si trasforma con sconcertante naturalezza in “sono serbo, quindi è logico che combatta per la Bosnia”.
A questo punto è facile immaginare questi paramilitari come eroici salvatori della patria, di quelli, per intenderci, che vengono raffigurati con un fucile in mano e un neonato in braccio.
Ma la realtà ci sorprende ancora: è vero che Neven non è proprio uno stinco di santo, ma il comandante della sua unità, Ismet Bajramovic, detto “Celo” è uno spietato criminale, uscito di galera solo grazie alla guerra. E non è nemmeno il peggiore: scopriamo che la maggior parte di questi partigiani, prima della guerra erano noti alla giustizia come spacciatori, assassini, rapinatori, stupratori.
Riassumendo: abbiamo un “cattivo” che però è quasi buono che si arruola nei “buoni” che però non sono poi così buoni. Siamo in piena “zona grigia”, quella penombra degli eventi che solo i reporter più bravi sanno raccontare. Con la guida di Neven, Joe Sacco si addentra nel dedalo di ideologie barbare e di morali ambigue che popolano i bassifondi della guerra, riuscendo ad astenersi da ogni giudizio.
Anche perchè è difficile giudicare uomini come Neven, che sfuggono ad ogni classificazione e che sono mossi da logiche imperscrutabili. O come i comandanti delle milizie, con i loro ego degni di Gengis Khan e la loro ferocia ingovernabile. Quando crediamo di averli capiti, ecco che di nuovo prendono direzioni inaspettate. Come si fa a raccontare gente così? E per di più a fumetti? Eppure Sacco sembra mettere a fuoco qualcosa sulla guerra dei Balcani che non ci era mai stato detto con tanta chiarezza: che la logica degli eventi bellici è una costruzione a posteriori creata da una cultura razionale e perbene, ma gli eventi stessi sono generati da una cultura profondamente diversa, di cui la storia si vergogna. È una cultura che non si muove lungo ascisse e ordinate, ma lungo linee tortuose e frammentarie.
Sarà per questo che ci vuole un disegnatore per decifrarla in modo così convincente.
Eccolo quindi a Sarajevo nel 1995, a pochi mesi dagli accordi di Dayton e a pochi passi da quel che rimane del fronte, in un Holiday Inn perforato dalle granate.
I giornalisti importanti se ne sono già andati: la miniera delle tragedie si è esaurita ed è rimasto solo il silenzio.
Nel buio della hall però c'è ancora qualcuno, di fronte ad un posacenere mezzo pieno e una pila di biglietti da visita: è Neven che aspetta un compratore per i suoi ricordi. La guerra gli ha preso molto e lui sta cercando di guadagnare un altro pezzo di vita con il poco che gli è rimasto. Di mestiere fa il fixer, cioè colui che i giornalisti incaricano di procurare contatti per ottenere informazioni e interviste.
Ma presto Joe capisce che Neven stesso è la chiave per indagare le pieghe più oscure della guerra dei balcani. Tanto per cominciare, è un serbo di Sarajevo che ha combattuto per la salvezza della Bosnia: nella sintassi semplificata della storia quindi era dalla parte dei buoni. Il corpo di cui aveva fatto parte erano i “berretti verdi” (ricorda niente?), braccio armato del partito nazionalista musulmano, costituito per affrontare i gruppi paramilitari appoggiati dal partito nazionalista serbo.
E qui le cose cominciano a complicarsi: perchè un serbo nei “berretti verdi”?
"Mi feci una domanda: da che parte sto? Sono un serbo, lo sai. E decisi di puntare le mie carte sulla Bosnia. Perchè avevo sempre pensato a me stesso come un nazionalista serbo. Sono nazionalista nel senso che amo la mia nazione. Ma non odio nessuno.”
Frastornati? I TG della sera avevano convinto molti che: “Nazionalisti serbi uguale cattivi, musulmani uguale buoni”. Ma gli esseri umani (per il diletto degli statistici) rifiutano di schierarsi in categorie deterministiche: per molti il sillogismo “sono serbo, quindi è logico che combatta per la Serbia” si trasforma con sconcertante naturalezza in “sono serbo, quindi è logico che combatta per la Bosnia”.
A questo punto è facile immaginare questi paramilitari come eroici salvatori della patria, di quelli, per intenderci, che vengono raffigurati con un fucile in mano e un neonato in braccio.
Ma la realtà ci sorprende ancora: è vero che Neven non è proprio uno stinco di santo, ma il comandante della sua unità, Ismet Bajramovic, detto “Celo” è uno spietato criminale, uscito di galera solo grazie alla guerra. E non è nemmeno il peggiore: scopriamo che la maggior parte di questi partigiani, prima della guerra erano noti alla giustizia come spacciatori, assassini, rapinatori, stupratori.
Riassumendo: abbiamo un “cattivo” che però è quasi buono che si arruola nei “buoni” che però non sono poi così buoni. Siamo in piena “zona grigia”, quella penombra degli eventi che solo i reporter più bravi sanno raccontare. Con la guida di Neven, Joe Sacco si addentra nel dedalo di ideologie barbare e di morali ambigue che popolano i bassifondi della guerra, riuscendo ad astenersi da ogni giudizio.
Anche perchè è difficile giudicare uomini come Neven, che sfuggono ad ogni classificazione e che sono mossi da logiche imperscrutabili. O come i comandanti delle milizie, con i loro ego degni di Gengis Khan e la loro ferocia ingovernabile. Quando crediamo di averli capiti, ecco che di nuovo prendono direzioni inaspettate. Come si fa a raccontare gente così? E per di più a fumetti? Eppure Sacco sembra mettere a fuoco qualcosa sulla guerra dei Balcani che non ci era mai stato detto con tanta chiarezza: che la logica degli eventi bellici è una costruzione a posteriori creata da una cultura razionale e perbene, ma gli eventi stessi sono generati da una cultura profondamente diversa, di cui la storia si vergogna. È una cultura che non si muove lungo ascisse e ordinate, ma lungo linee tortuose e frammentarie.
Sarà per questo che ci vuole un disegnatore per decifrarla in modo così convincente.
Nessun commento:
Posta un commento