Postmoderno

Duffo si lamenta dell’uso che si sente fare un po’ dappertutto del termine postmoderno. Arbore è postmoderno, così come Chiambretti. Postmoderni sono i blog, il cinema di Tim Burton, i fumetti di Alan Moore. Come dire che tutto è postmoderno e niente lo è. Ad esempio, si dice che Tarantino sia postmoderno. Perché? Perché spezzetta il racconto, infarcisce le inquadrature di citazioni, mescola cinema alto e cinema basso, incrocia Godard con Fulci. Fa un cinema bastardo, nel senso buono del termine, con un montaggio che centrifuga il linguaggio cinematografico. Allora anche Striscia la notizia è postmoderno, così come la Corrida di Corrado e il Festival di Venezia di Marco Müller che dedica uno spazio ai Re della serie b italiana. Ma da dove viene il termine postmoderno? Nel 1979 un filosofo francese, Jean Francois Lyotard scrive un rapporto sul “sapere” per conto del governo del Quebec (a proposito, South Park, che dichiara guerra al Canada è PM). In questo rapporto, poi pubblicato col titolo La condizione postmoderna, il filosofo riprende un termine nato nell’ambito dell’architettura per descrivere la condizione del sapere contemporaneo.
Lyotard dice che il postmodernismo è caratterizzato dalla crisi e dall’impossibilità di quelli che lui chiama “grandi racconti”. I grandi racconti sono quelle grandi architetture – filosofiche, scientifiche e letterarie – che cercano di dare un ordine generale al mondo e al sapere. La fine dei grandi racconti significa, per Lyotard, la fine della visione ottimistica che, ad esempio in Hegel e Marx, ma anche nell’Illuminismo, vedeva nella storia una lunga autostrada verso un ideale compimento finale: lo spirito assoluto per Hegel o il trionfo del proletariato per Marx sono modi per legare il processo storico al progresso sociale. Oppure, ancora, il PM segna per Lyotard la fine dell’ideale della scienza come spiegazione generale del mondo, sogno di trasparenza e di sapere assoluto: con il principio di indeterminazione o con il teorema di Gödel anche la scienza si è trovata davanti ai limiti della sua possibilità di spiegare il mondo. Come dire che se la modernità era caratterizzata da una forma di ottimismo e dal sogno di uno sviluppo e di una crescita verso il meglio, il PM, rinunciando, sulla scia di Nietzsche (che diceva che non ci sono verità, solo interpretazioni), all’idea che sia possibile raggiungere una verità assoluta, diventa una specie di filosofia “postuma”: dopo la morte della storia e dei grandi racconti rimane solo la meditazione infinita sulla pluralità di linguaggi che l’uomo ha a disposizione. Ecco perché possiamo trovare, ad esempio in Tarantino, un montaggio da Nouvelle vague, scene da film di spadaccini cinese e musiche da spaghetti western in unico racconto. Se non c’è più una gerarchia di verità, Aristotele non è più vero di Elvis e Mario Bava può stare accanto a Fellini. Fin qui tutto bene. Il Postmoderno ci fa fare un bel salto in avanti, senza rete. Ma come si dice all’inizio di L’odio di Kassovitz, il problema non è la caduta, ma l’atterraggio. Vediamo alcune delle ricadute che il discorso fatto fin qui può avere sulla narrazione. In letteratura, ad esempio, con il PM viene a cadere l’idea che abbia un senso continuare a raccontare storie tradizionali, con un inizio, uno svolgimento e una fine. Anche Joyce, si potrebbe dire, ha frantumato la narrazione. La differenza è che Joyce, distruggendo la narrazione tradizionale, cerca di scrivere un libro “assoluto”. Joyce non crede nella letteratura tradizionale, ma crede comunque nella possibilità da parte della letteratura di ricreare un’immagine “vera” del mondo, anche se la sua verità è la babele dei linguaggi o la giornata dublinese di un uomo qualunque che ripete le peregrinazioni di Ulisse. I postmoderni, seguendo Lyotard, non cercano più di scrivere “Il” libro, ma fanno affondare la narrazione in testi frantumati e pieni di citazioni e mescolanze stilistiche.
La differenza rispetto a Joyce è che lui credeva ancora nella possibilità di dare un ordine, mentre loro abbandonano la narrazione al ribollire del caos. Il problema è che il Postmoderno, come le bugie, ha le gambe corte. Il fatto di non poter arrivare a una verità assoluta non vuol dire abbandonare ogni tentativo di trovare verità relative. Altrimenti tra Antonio Ricci e Philip Dick o tra Vacanze di Natale e Magnolia o i Tenembaum non ci sarebbe alcuna differenza. Per questo, se i Simpson sono postmoderni nel loro citazionismo sfrenato, sono qualcosa di più nel momento in cui, attraverso la critica della società e il filtro dell’ironia, ci lasciano comunque una forma di verità: l’idea, ad esempio, che Monty Barnes sia uno stronzo o che il pietismo televisivo (le cucuzzate) siano una cosa da avvoltoi. In questo senso, al di là delle definizioni, il PM ci insegna ad abbandonare le cornici della tradizione e a fare a meno dei vincoli delle narrazioni “classiche”. Ma questo non vuol dire nascondere il nulla sotto il tappeto di un termine altisonante. Non dobbiamo infatti dimenticarci che a contare davvero è la capacità di continuare a dare un senso a quello che succede attorno a noi e trasmetterci emozioni. Akira di Otomo forse è postmoderno, ma il suo modo di mescolare i codici riesce sempre a “far male”. Grandi scrittori PM, come Thomas Pynchon o D.F Wallace, fanno esplodere l’architettura del romanzo, ma riescono comunque a costruire storie appassionanti. Insomma, possiamo fare a meno di questo termine troppo generale per cercare di osservare da vicino i casi specifici: al di là delle etichette, ci sono storie ben raccontate e storie raccontate male. Immaginando il PM come l’entrata in una dimensione caotica e incasinata, continuo ad apprezzare quello che diceva Italo Calvino nel suo saggio Sfida al labirinto. Se l’esperienza dell’individuo contemporaneo è simile a quella di un viandante che gira alla cieca in un labirinto, compito della letteratura (e della narrazione in generale) è quello di cercare di dare un senso al percorso e di cercare una via d’uscita. Anche se magari è solo l’ingresso in un altro labirinto. Insomma, c’è un postmoderno che si arrende al labirinto e uno che continua a sfidarlo, costruendo mappe per cercare di venirne fuori. Io preferisco questa seconda strada. 
by alunno Proserpio 21/08/06

Nessun commento:

Posta un commento