Hauntology 4: Spettri e suoni

Torniamo all’Hauntology, provando a riportare il senso di queste riflessioni ad alcuni sviluppi della musica contemporanea. Premetto che Reynolds (vedi Hauntology 1) non stabilisce un legame diretto tra l’origine filosofica del termine e l’uso che ne fa lui. In sostanza, il termine si riferisce a un genere musicale basato sul recupero di suoni del passato che, essendo stati rimossi, riappaiono come tracce di un futuro che non c’è mai stato. Un esempio sono i suoni recuperati nei laboratori della BBC dove negli anni settanta vennero condotti esperimenti futuristici sul suono che portarono a immaginare paesaggi sonori, ma che in raltà non si sono mai realizzati. Esiste tutto un serbatoio di suoni autentici, ma mai realmente messi in circolazione, che costituisce la fonte da cui gli spiritisti sonori dell’Hauntology attingono per plasmare soundscapes alternativi.
Con Hauntology si può indicare un universo culturale che cerca di contrastare il dilagante profluvio di postmodernisimi vari attraverso operazioni di smontaggio e “infestazione” di luoghi sonori e fisici carichi di memorie non realizzate. Esistono degli Hauntology events, che si svolgono in luoghi disabitati, spazi catacombali, fari coperti di muffa, sotterranei di case disabitate del Suffolk. Soprattutto, esiste un “genere” musicale, che ha la casa madre nella label Ghost Box, i cui artisti giocano con suoni del passato che hanno tracciato la strada verso un futuro che non si è mai attualizzato. Vecchi 78 giri dimenticati nei bauli, segnali sonori captati dall’etere, tracce radio ronzanti provenienti dallo spazio profondo dei serial BBC, le sigle dei programmi per bambini di Oliver Postgate, immaginari infarciti di complotti politici ai tempi del governo Attlee, trame occulte, frammenti del film su Alice di Jonathan Miller, eccentricità da psichedelia british.
Tutto questo immaginario psicosonoro si condensa dando vita a una musica che trasmette la sensazione di essere davvero in un altro mondo popolato di suoni fantasmatici. Si tratta di suoni recuperati e ricombinati, ma rispetto al postmodernismo c’è una differenza significativa. Il postmoderno recupera “coscientemente” frammenti del passato che incontra ripercorrendo, ad esempio, la storia della musica. I Franz Ferdinand, che ricreano nel 2000 suoni punk funk presi di peso dall’inizio degli anni ottanta e riattualizzati, sono postmoderni. Così come lo sono i Last Shadow Puppets che ricreano un’atmosfera sixities suonando canzoni che avrebbero potuto essere state scritte dai Walker Brothers. Le operazioni “post” sono ipercoscienti e ipercolte: la consapevolezza è la chiave per lanciare e cogliere l’ammiccamento dell’autore. Basta pensare a tutti i siti che rintracciano le origini delle citazioni tarantiniane, come se si trattasse di una partita a nascondino guidata dall’autore.
L’Hauntology non lavora sul recupero pulito e “cosciente” dei ricordi, ma secondo una definizione di K-punk, punta sui “disordini della memoria”. Non è musica nostalgica, se non come potrebbe essere nostalgico un disco dei Daft Punk che facesse compiere ai Beach boys un’accelerazione attraverso la House e la Techno dando vita a qualcosa che non è House e non è Techno ma è lo spirito dei Beach Boys riapparso nel 2000. E quindi non è uno “spirito”, ma uno “spettro” (e a modo suo credo che il french touch sia una versione parigina e quindi molto più stilosa dell’hauntology). Sull’idea stessa di nostalgia si soffermano molti degli autori che stanno esplorando questa dimensione dell’esperienza, ricordandoci che in origine la nostalgia – la homesickness – non indicava solo un rimpianto per i bei tempi andati, ma uno stato di alterazione della psiche che portava a confendere il passato col presente, le cose immaginate e ripescate dalla memoria con cose realmente presenti. Quindi esiste una nostalgia della Hauntology, ma è una nostalgia che si basa sull’alterazione dei dati di realtà, non sull’idea di “collezionare” suoni o ricordi.
Quando ad esempio i Caretaker rimettono in onda e modificano la voce di un crooner inglese che canta vecchie canzoni in una tea room della Londra dell’anteguerra fanno un’operazione di hauntology: un rimosso viene recuperato come una specie di disturbo della memoria. Sentiamo qualcosa che non riusciamo a collocare (mentre la musica dei Franz Ferdinand, dei White Stripes o di Moby oppure i film di Tarantino e di Tim Burton sono pieni di indizi che ci permettono di collocarli negli scaffali giusti).
Un esempio di questo modo di “fantasmare” il suono è dato dai dischi di Burial, capofila del cosiddetto Dubstep, in cui la nostalgia per una musica felice ed euforica viene sommerso da una percezione spaziale del suono che oscura e disturba la fruizione. Burial non ripropone gli stereotipi del trip hop di Bristol e nemmeno cerca di rilanciare il classico suono jungle o drum & bass londinese, ma prende frammenti di cantato soul, li mescola con un dub urbano spogliato da ogni esotismo giamaicano e con il flavour della South london di fine millennio, condisce il tutto con disturbi captati da una specie di radio pirata e li fa diventare musica elettronica bella e “depressiva”: depressiva proprio perché ci mette in connessione immediata con flussi sonori “disturbati” e disturbanti. Il risultato è una specie di strato sonoro oscuro in cui i ritmi house e jungle si riducono a impalcture metalliche che si fanno strada tra la densita di suoni elettronici iperbassi dando vita a un trip hop decostruito e rallentato, incredibilmente evocativo e, appunto, spettrale. Con la musica di Burial non siamo in nessun punto preciso del tempo: siamo in uno spazio sonoro in cui l’irrecuperabilità dello spazio e l’impossibilità del futuro entrano in collisione per generare una sorta di non tempo sonoro abitato da fantasmi.
Continua...

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