C'è qualcuno che mi segue. Ne sono sicuro, non sono matto. Lo so perché l'ho visto. In realtà non è nemmeno uno solo, sono molti. Quando esco di casa c'è sempre una persona che scruta le mie mosse da una certa distanza, mi segue fino ad un punto in cui nelle vicinanze è presente un suo complice, parlottano per un attimo e poi si danno il cambio. Ho provato a denunciare la cosa al poliziotto del mio quartiere ma lui ha detto che si trattava solo di una mia impressione e che non c'era niente di cui preoccuparsi. Ora che ci penso, quel poliziotto gira costantemente attorno al palazzo dove abito, sempre da solo, senza farsi dare mai il cambio da nessuno. E' strano.
Mah, forse si tratta davvero di una paranoia o forse sto semplicemente impazzendo. D'altronde il cammino che conduce alla pazzia è sconosciuto a tutti, no? Potrei anche farmene una ragione ma il mio istinto mi dice che non è così. Sono sotto pressione. Non riesco più a vivere serenamente.
In ufficio è un tormento. Tutti i colleghi mi squadrano con i loro occhi indagatori ad ogni piccolo movimento che faccio, confabulano tra loro alle mie spalle. Io non so come comportarmi. Non lavoro più bene a causa delle loro domande invadenti: apparentemente mi chiedono come sto, se c'è qualcosa che non va, se non è il caso che mi prenda una vacanza. Vogliono carpire le mie risposte come se al loro interno ci fosse qualcosa di molto importante, ma non riesco a capire cosa. Il mio direttore esamina costantemente tutte le mie pratiche. Lo faceva anche prima, ma adesso è molto più scrupoloso, più insistente e mi chiede continuamente spiegazioni riguardo ad ogni insignificante piccolo errore. La mia ragazza mi ha lasciato. In realtà l'ho voluto io: le ho detto se poteva fare a meno di starmi sempre appiccicata, sempre a casa mia, insistentemente presente con la scusa di cucinare per me, lavarmi i vestiti e pulire la casa. Non doveva essere molto innamorata se appena le ho chiesto di ridarmi il suo paio di chiavi me le ha tirate addosso ed è andata via senza tanti complimenti. Comunque so di certo che mi tiene sotto controllo per mezzo della vecchietta che abita nell'appartamento accanto, d'altronde quando si incontravano sul pianerottolo si mettevano sempre a spettegolare sul mio modo di vita e a discutere sugli orari dei miei spostamenti.
L'unica persona di cui mi fidi ciecamente è mio fratello Gianni: siamo gemelli. C'è un qualcosa di telepatico fra i gemelli. Mi viene a trovare spesso. A lui non ho parlato di tutta questa faccenda solo perché non voglio che stia in pensiero per me, anche se sospetto che sia già preoccupato.
Mi sono confidato con il gatto. So che è una cosa da matti, ma almeno lui non mi assilla con domande senza senso. Non so se faccio bene, da un po' di tempo è giù di corda. Forse le mie stupide paranoie hanno contagiato anche lui. Povero Fritz, è vittima di questa maledetta situazione. Un mese fa l'ho portato dal veterinario ed alla fine Gianni si è offerto di andare a riprenderlo. Mio fratello sa che ormai io non ce la faccio quasi più ad uscire di casa. Bella riconoscenza verso quella povera bestiola, se non fosse stato per Gianni sarebbe ancora dal veterinario.
Adesso che Fritz sta di nuovo male dovrei riportarlo in ambulatorio ma, con tutti quegli occhi che mi stanno incollati addosso in continuazione, non ne ho la forza, e non posso nemmeno chiedere di nuovo aiuto a mio fratello. Non sarebbe giusto. Devo farlo io. Dovrei farmi coraggio e convincermi, ma non è facile.
Non so più cosa fare dottore. La cosa sta rasentando il ridicolo. Pensi che quando ho deciso di rivolgermi ad uno psichiatra, ho organizzato una estrazione con tanto di urna a manovella e palline con gli indirizzi dei vari studi della città, compreso il suo, pur di scongiurare la possibilità di un complotto ai miei danni. Lei deve aiutarmi perché così non posso andare avanti.
La voce dell'uomo si arrestò all'improvviso quando ormai era diventata una presenza familiare tra le pareti dello studio. Il professore, apparentemente infastidito dalla cosa, si sistemò gli occhiali a mezzaluna sul naso a stiletto e si schiarì la voce.
- Il suo è un caso relativamente semplice. Si tratta del cosiddetto "Effetto Zeder", il nome l'hanno preso da un film dell'83 di Pupi Avati. Il soggetto, lei, è affetto da un complesso paranoico che può avere diversi gradi di gravità e l'Effetto Zeder è appunto il sintomo più evidente di questa patologia. Si ha il convincimento di essere al centro di un complotto, ordito per motivi inspiegabili e che coinvolge gran parte delle persone conosciute dal malato. Nel suo caso direi che siamo in presenza di una sindrome acuta ma non irreversibile.
L'uomo, che prima fissava il soffitto, girò gli occhi sgranati verso il luminare.
- Vuol dire che guarirò?
- Beh, quando si ha a che fare con la psiche umana non c'è nulla di certo. Comunque ci sono ottime possibilità. L'importante e che lei continui a venire almeno una volta a settimana. Come vede già in questa prima ora ha fatto molti passi nella direzione della guarigione.
- Cioè?
- Vede, la prima difficoltà, sicuramente la più grande, è proprio riconoscere di avere un problema. La mente, impegnata com'è a difendersi da una possibile minaccia esterna (le paranoie sono sempre il frutto di un distorta visione delle cose reali trasformate di volta in volta in pericoli di varia natura) non trova più appigli per uscire da questa situazione e si avvita sempre di più in se stessa. La paranoia quindi si autoalimenta. Questo stato di cose continua finché il soggetto non decide di chiedere aiuto all'esterno e di rompere questa spirale. Lei ha scalato il primo gradino, il più alto, ora non resta che proseguire sulla scala. Adesso però mi deve scusare ma, da un momento all'altro, dovrebbe arrivare un paziente.
- Oh, si capisco.
L'uomo si rialzò dal lettino, raccolse il cappotto dall'attaccapanni e strinse vigorosamente la mano del professore in segno di gratitudine. Aprì la porta dello studio e prima di uscire del tutto diede una rapida occhiata ai due lati del corridoio, infine si allontanò con passo svelto.
Rimasto solo, il professore si fece pensieroso e, accesosi la pipa, si mise a sedere sulla poltrona Birken di pelle nera, dondolando impercettibilmente, avvolto dal fumo che aveva preso a scendere in spire attorno alla sua figura. Nessun paziente si intravedeva dietro al vetro zigrinato della porta. Di scatto prese in mano la cornetta del telefono e digitò un numero.
- Pronto Gianni? Sono Chesi. Vai immediatamente a riprendere il robot, precedenza assoluta. Fallo sparire, non mi importa che scusa usi. Non possiamo permetterci di far fuori un altro veterinario per uno stupido gatto che funziona male.
La lampada posta sulla scrivania di rovere scuro proiettava ombre nette sul volto ora sorridente, uno spesso strato di fumo giallastro si propagava verso ogni angolo della stanza e la risata isterica di una vecchia riecheggiò tra quelle mura nere.
Mah, forse si tratta davvero di una paranoia o forse sto semplicemente impazzendo. D'altronde il cammino che conduce alla pazzia è sconosciuto a tutti, no? Potrei anche farmene una ragione ma il mio istinto mi dice che non è così. Sono sotto pressione. Non riesco più a vivere serenamente.
In ufficio è un tormento. Tutti i colleghi mi squadrano con i loro occhi indagatori ad ogni piccolo movimento che faccio, confabulano tra loro alle mie spalle. Io non so come comportarmi. Non lavoro più bene a causa delle loro domande invadenti: apparentemente mi chiedono come sto, se c'è qualcosa che non va, se non è il caso che mi prenda una vacanza. Vogliono carpire le mie risposte come se al loro interno ci fosse qualcosa di molto importante, ma non riesco a capire cosa. Il mio direttore esamina costantemente tutte le mie pratiche. Lo faceva anche prima, ma adesso è molto più scrupoloso, più insistente e mi chiede continuamente spiegazioni riguardo ad ogni insignificante piccolo errore. La mia ragazza mi ha lasciato. In realtà l'ho voluto io: le ho detto se poteva fare a meno di starmi sempre appiccicata, sempre a casa mia, insistentemente presente con la scusa di cucinare per me, lavarmi i vestiti e pulire la casa. Non doveva essere molto innamorata se appena le ho chiesto di ridarmi il suo paio di chiavi me le ha tirate addosso ed è andata via senza tanti complimenti. Comunque so di certo che mi tiene sotto controllo per mezzo della vecchietta che abita nell'appartamento accanto, d'altronde quando si incontravano sul pianerottolo si mettevano sempre a spettegolare sul mio modo di vita e a discutere sugli orari dei miei spostamenti.
L'unica persona di cui mi fidi ciecamente è mio fratello Gianni: siamo gemelli. C'è un qualcosa di telepatico fra i gemelli. Mi viene a trovare spesso. A lui non ho parlato di tutta questa faccenda solo perché non voglio che stia in pensiero per me, anche se sospetto che sia già preoccupato.
Mi sono confidato con il gatto. So che è una cosa da matti, ma almeno lui non mi assilla con domande senza senso. Non so se faccio bene, da un po' di tempo è giù di corda. Forse le mie stupide paranoie hanno contagiato anche lui. Povero Fritz, è vittima di questa maledetta situazione. Un mese fa l'ho portato dal veterinario ed alla fine Gianni si è offerto di andare a riprenderlo. Mio fratello sa che ormai io non ce la faccio quasi più ad uscire di casa. Bella riconoscenza verso quella povera bestiola, se non fosse stato per Gianni sarebbe ancora dal veterinario.
Adesso che Fritz sta di nuovo male dovrei riportarlo in ambulatorio ma, con tutti quegli occhi che mi stanno incollati addosso in continuazione, non ne ho la forza, e non posso nemmeno chiedere di nuovo aiuto a mio fratello. Non sarebbe giusto. Devo farlo io. Dovrei farmi coraggio e convincermi, ma non è facile.
Non so più cosa fare dottore. La cosa sta rasentando il ridicolo. Pensi che quando ho deciso di rivolgermi ad uno psichiatra, ho organizzato una estrazione con tanto di urna a manovella e palline con gli indirizzi dei vari studi della città, compreso il suo, pur di scongiurare la possibilità di un complotto ai miei danni. Lei deve aiutarmi perché così non posso andare avanti.
La voce dell'uomo si arrestò all'improvviso quando ormai era diventata una presenza familiare tra le pareti dello studio. Il professore, apparentemente infastidito dalla cosa, si sistemò gli occhiali a mezzaluna sul naso a stiletto e si schiarì la voce.
- Il suo è un caso relativamente semplice. Si tratta del cosiddetto "Effetto Zeder", il nome l'hanno preso da un film dell'83 di Pupi Avati. Il soggetto, lei, è affetto da un complesso paranoico che può avere diversi gradi di gravità e l'Effetto Zeder è appunto il sintomo più evidente di questa patologia. Si ha il convincimento di essere al centro di un complotto, ordito per motivi inspiegabili e che coinvolge gran parte delle persone conosciute dal malato. Nel suo caso direi che siamo in presenza di una sindrome acuta ma non irreversibile.
L'uomo, che prima fissava il soffitto, girò gli occhi sgranati verso il luminare.
- Vuol dire che guarirò?
- Beh, quando si ha a che fare con la psiche umana non c'è nulla di certo. Comunque ci sono ottime possibilità. L'importante e che lei continui a venire almeno una volta a settimana. Come vede già in questa prima ora ha fatto molti passi nella direzione della guarigione.
- Cioè?
- Vede, la prima difficoltà, sicuramente la più grande, è proprio riconoscere di avere un problema. La mente, impegnata com'è a difendersi da una possibile minaccia esterna (le paranoie sono sempre il frutto di un distorta visione delle cose reali trasformate di volta in volta in pericoli di varia natura) non trova più appigli per uscire da questa situazione e si avvita sempre di più in se stessa. La paranoia quindi si autoalimenta. Questo stato di cose continua finché il soggetto non decide di chiedere aiuto all'esterno e di rompere questa spirale. Lei ha scalato il primo gradino, il più alto, ora non resta che proseguire sulla scala. Adesso però mi deve scusare ma, da un momento all'altro, dovrebbe arrivare un paziente.
- Oh, si capisco.
L'uomo si rialzò dal lettino, raccolse il cappotto dall'attaccapanni e strinse vigorosamente la mano del professore in segno di gratitudine. Aprì la porta dello studio e prima di uscire del tutto diede una rapida occhiata ai due lati del corridoio, infine si allontanò con passo svelto.
Rimasto solo, il professore si fece pensieroso e, accesosi la pipa, si mise a sedere sulla poltrona Birken di pelle nera, dondolando impercettibilmente, avvolto dal fumo che aveva preso a scendere in spire attorno alla sua figura. Nessun paziente si intravedeva dietro al vetro zigrinato della porta. Di scatto prese in mano la cornetta del telefono e digitò un numero.
- Pronto Gianni? Sono Chesi. Vai immediatamente a riprendere il robot, precedenza assoluta. Fallo sparire, non mi importa che scusa usi. Non possiamo permetterci di far fuori un altro veterinario per uno stupido gatto che funziona male.
La lampada posta sulla scrivania di rovere scuro proiettava ombre nette sul volto ora sorridente, uno spesso strato di fumo giallastro si propagava verso ogni angolo della stanza e la risata isterica di una vecchia riecheggiò tra quelle mura nere.
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