Scrittori al cinema

Si scherzava, nelle lunghe code sotto la pioggia battente di Pordenonelegge, col Duffo, riguardo al nome di Cortellessa. Forse non è un nome, ma un soprannome, e dei più calzanti, appiccicato a un figuro intabarrato sempre pronto ad estrarre la sua navaja e a farla scattare con un colpo di polso, il mantello arrotolato sull'altra mano, come in certe risse romanesche dei bei tempi andati.
(Ma come faranno a combattere, tutti questi albanesi e senegalesi e napoletani e veronesi e figli della suburra post-pasoliniana, visto che indossano solo strettissime magliette di D&G poco utili in funzione protettiva, vuoi mettere con una giacchetta di fustagno o con un parka?).
Si ipotizzava, allora, che il critico letterario prendesse il nome dal suo strumento di morte, la cortellessa (variante romana del “cortel” o del “corteass” veneto), appunto, e che fosse sempre pronto a sguainarla a fronte di insulti e provocazioni da parte di altri esponenti del mondo letterario. Invece si tratta di un ragazzone corpulento e barbuto (non può non venire in mente Battiston, anche se certo assomigliasse a Orson Welles avrebbe altro impatto, sul grande schermo).
Allora, inizia il suo (e di Luca Archibugi) film, Senza Scrittori; anzi no, non inizia. C'è prima del film un dibattito. Ottima occasione per ribaltare i rituali nannimorettiani di chi considera ancora il cinema come qualcosa su cui dibattere, o su cui dibattersi, in un amplesso che magari il film, poverino, non avrebbe poi tanto gradito. Ma tanto il film è di Cortellessa e ci può fare tutto il sesso che vuole (ora, in senso tecnico, questa si chiama masturbazione, o sega mentale e corporale). Ma, insomma, c'era proprio bisogno di venti minuti o più di confronto a tre sul valore di un film che nessuno del pubblico aveva ancora visto? Quindi, si va al cinema e ci si trova al teatro, con tre attori, in ordine Francesco Cataluccio, simpatico toscano, che come tutti i toscani ha sempre in agguato il sorrisino da “ti piglio per il culo”. Di Cataluccio ricordo alcune introduzioni davvero memorabili a Gombrowicz e un bel libro di peregrinazioni mitteleuropee, e pur essendo un uomo di fascino colto (del genere pelato dalla voce profonda e l'occhio ironico, a qualcuno piacciono) mi delude un po' perché m'ero fatto di lui un'immagine di omino piccolino e sfigato, da personaggio di Ferdydurke, insomma, schiacciato dalla morsa del potere. Invece ha l'aria, sia detto con simpatia, di quello che la morsa del potere la manovra, dandoci dei bei giri. In fondo è uno che, cresciuto in Feltrinelli, è stato direttore editoriale di Bruno Mondadori e poi di Bollati Boringhieri, non proprio un outsider, dunque. E infatti nel dibattito pre e post film non sembra proprio metterci l'anima, va in souplesse, come a dire “ma a me che mme frega”.
Stefano Salis, dal canto suo, che si occupa di temi legati all'editoria sul supplemento domenicale del Sole 24 ore, ha un'aria non simpaticissima, ma non può che conquistare i favori del pubblico con i suoi interventi in disaccordo con Cortellessa e che iniziano quasi sempre con frasi del tipo: “Non riesco a tenermi, te lo devo proprio dire”. Insomma, il barbuto Salis, (da distinguere dal barbuto Cortellessa, il primo ha la barbaccia nera di chi si è rasato la prima volta a otto anni, mentre il secondo sfoggia una barbetta adolescenziale da indie rocker, adatta al volto delicato di bimbo a quattro dimensioni) non ci sta, non condivide le tesi del film. Ma quali saranno, le tesi?
Insomma, il quadro è il seguente: il film ancora non si è visto e Cortellessa è d'accordo (con se stesso), Salis in disaccordo (con Cortellessa), Cataluccio pensa signorilmente ai cazzi propri.
E dunque, mentre dal pubblico si leva qualche mugugno per il lungo confronto iniziale, il film, in mezzo ai consueti problemi tecnici, incomincia. E devo dire che non è male, se riusciamo a dimenticarci di Cortellessa vestito di rosso che fa un po' il Michael Moore senza averne però l'aggressività ideologica (e questo è bene) e i soldi (questo fa sì che il film sia un po' abborracciato, non è proprio un'inchiesta, non è un documentario d'autore, non si sa bene cosa sia). Per un sostenitore della letteratura alta come Cortellessa, certi giochi di inquadratura sono un po' scontati (come dire, sarà pure cresciuto a pane e Gadda, ma come documentarista siamo più dalle parti di Minoli e il montaggio è da “Le Iene”, e non quelle di Tarantino), del tipo che se mi inquadri una vecchiaccia col trucco al premio strega e non sei Von Stroheim, quello che vedi è una vecchiaccia ripresa col trucco in primo piano. Ma, per farla breve, il film guardatevelo (cosa credevate, questa è l'introduzione, il dibattito, mica il film), non è male, non capita tutti i giorni di guardare in faccia certe persone che prendono certe decisioni e ci fanno arrivare certi libri. C'è Tiziano Scarpa, venezianissimo e baffuto, che fa il modesto, il “che ci faccio qui”, e si porta a casa lo Strega. C'è Scurati che fa se stesso, cioè l'archetipico compagno delle medie che era un piacere prendere a calci nel culo, e che dichiara di non starci, con questo giochetto della società letteraria. C'è Franchini, che attenzione, sembrerebbe anche lui l'archetipico compagno delle medie di cui sopra, ma pratica ogni genere di arte da combattimento, quindi, come dire, cattiva idea metterla sul confronto fisico, a meno che non si abbia in tasca, che ne so, una 357 magnum o almeno una cortellessa a serramanico. Franchini è il direttore editoriale della narrativa Mondadori. È il signore che sceglie (o contribuisce a scegliere) buona parte del menu letterario che ci viene propinato nelle librerie. Ecco, a film finito, facendo la solita figura dello stalker da fiera della letteratura, sono intervenuto per provare a dire che quel Franchini mi pare uno non proprio contentissimo del mestiere che fa, perché ha l'atteggiamento di quello che dice “Sì, in effetti pubblico un sacco di merda, roba che poi per espiare mi devo far prendere a mazzate sul ring, ma è la merda che poi permette di pubblicare roba buona, tipo Moresco”: Perché è questo il senso del film, l'eterna lotta tra il bene e il male, tra letteratura di qualità e letteratura di massa, tra Cristi Polverizzati, che Cortellessa, facendo sfoggio di modestia, definisce il nuovo Gadda (lo sfoggio di modestia è verso se stesso, dato che l'ha pubblicato lui, nella sua collana presso l'editore Le lettere) e Mazzantini. E indicativo mi pare l'episodio strappalacrime, quando Cortellessa vede i ragazzi dello staff del festival di letteratura di Mantova che, al momento di scegliere il loro autore da invitare, invitano la Mazzantini e Cortellessa ci rimane malissimo. Generando la compassione del pubblico. Che adesso, a tarda ora, si è un po' rotto i coglioni, e aspetta la fine del film, che è un elegiaco elogio del festival di Topolò, del tipo piccolo e bello, il volontariato salva la cultura, con tanto di poetessa che declama versi non proprio di grande impatto. Al punto che alla fine, al momento del dibattito vero, Cataluccio dichiara che allora tantovale la Mazzantini, se poi il bel festival di Topolò invita simili autori.
Colpisce e fa riflettere, come si diceva un tempo, il momento, anche questo da libro Cuore, in cui Cortellessa narra le tristi vicende di alcuni aspiranti lettori del sunnominato Cristi polverizzati. Costoro si recano presso una libreria Feltrinelli, in momenti diversi, non in processione, spero, solo per essere liquidati dal commesso con un tipico “Il libro non esiste, l'editore non esiste, la collana non esiste!”. A parte che questa faccenda genera in me il ricordo proustiano del giornalaio che c'era vicino a casa mia, maestro nel tacciare di non esistenza qualsiasi pubblicazione di cui fosse sprovvisto, e che scopro quindi antesignano dei feltrinelliani, la cosa merita un piccolo approfondimento. Prima cosa, Cortellessa dice, affranto, che i malcapitati sono stati “addirittura quattro”, sostenendo in modo non del tutto velato che si tratta di un complotto ai danni suoi, di Cristi Polverizzati, dell'editore Le Lettere e della buona letteratura in genere (da Cuore alle conspiracy theories, neanche De Lillo e Pynchon). A parte che usare quattro suoi conoscenti come dato statistico nemmeno il Cavaliere lo farebbe, forse solo il Paolo del Debbio dei bei tempi, ma in questo caso c'è da dubitare delle capacità cognitive dei cavalieri che fecero l'impresa: che i commessi della Feltrinelli non vengano selezionati alla Normale di Pisa è cosa nota, che esista una cosa che si chiama internet, qualcuno lo sa, che ci siano alcuni siti, tra cui quello di Le Lettere, in cui si può compiere un'operazione incredibile, come ordinare dei libri, pare che sfugga a tutti i dibattenti. Che non replicano nel modo più semplice: cioè che se ci sono così tanti lettori in attesa di leggere il nuovo Gadda, si suppone che costoro, oltre a una solida cultura letteraria, abbiano quantomeno un'intelligenza nella norma, e che siano così in grado di attivarsi per compiere operazioni di portata sovrumana, tipo ordinare un libro su IBS, andare in un'altra libreria, mandare affanculo il commesso Feltrinelli.
Allora in sintesi sintesi (cercate in rete i lunghi scambi tra Cortellessa e il resto del mondo per le sfumature, per esempio questo), Cortellessa dice viva i bei tempi andati in cui era tutta campagna e c'era più spazio per la letteratura di qualità, (e guardacaso, aggiungo io, c'era una bella compagine di persone che decretava cosa era qualità e cosa no), e abbasso i tempi presenti in cui un ragazzo bravo, intelligente e di buone letture riesce ad arrivare a una cattedra universitaria per scoprire che quello di intellettuale è un mestiere in via di estinzione, come gli arrotini e le signore friulane col fazzoletto nero in testa che intrecciavano le gerle. Salis dice “Ma che cazzo dici, Cortellessa! Oggi c'è moltissima più gente che legge, magari anche la Mazzantini, ma ben vengano le masse istruite”, (e se poi, aggiungo io dovessi decidere di non recensire più sul Domenicale, che ne so, Mondadori o Bompiani, chi mi paga lo stipendio?). Cataluccio dice poco, racconta della figlia, che non le piace Marcovaldo e che la scuola ci ha rovinato Manzoni (che è l'equivalente, nel mondo dei lettori forti, di dire “negri di merda” alla festa della Lega, si dice per strappare l'applauso). E la figlia, poverina, non ci esce proprio bene, nella storia, non sveglissima, parrebbe, alla sua età. E poi il messaggio che passa è agghiacciante: mentre noi siamo a Pordenonelegge ad attendere la rivelazione e il sapere assoluto, la genetica non la controlli, e ragazzi, chissà che ti venga fuori qualcuno che legge la Mazzantini, oppure Baricco,o La Solitudine dei Numeri primi, che chiunque lo abbia scritto, quel libro, il titolo è proprio bello.

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