Pet sounds è più di un disco: è la creazione di un’immagine e di un tipo umano. Prima di Pet Sounds i ragazzi bianchi di buona famiglia, i figli della middle class, avevano vissuto sull’onda lunga del dopoguerra. Cullati dal ritmo delle stagioni, erano passati attraverso la cadenza regolare delle world series, delle elezioni presidenziali, dei gruppi vocali alla Everly Brothers. Il ragazzo bianco della buona borghesia, il rampollo wasp al volante di una De Soto modello S, come Richie Cunningham, stava tutto nel cuoio di un guantone da baseball o nella luminosità soffusa dei cinema: programmi domenicali di film horror, mostri dagli occhi di insetto in terrorvision.
Nel Nevada il governo lasciava che i venti radioattivi pettinassero i capelli impomatati degli elettori. Oggetti volanti non identificati disegnavano rotte luminose nei cieli del deserto, mentre il Rat Pack – Dean Martin, Sammy Davis Junior, e Ol’ Blue Eyes Sinatra – consumava whisky a fiumi nei locali dei Bravi Ragazzi. La guerra Fredda imponeva prove di evacuazione e incubi di dominazione rossa. Gli alieni erano lì, a minacciare il corpo sano e sportivo dell’America: Cose dell’altro mondo pronte a imporre alla gioventù americana piani quinquennali e schiavitù intergalattiche. Negli anni cinquanta l’unico diversivo dalla paura dell’atomica sembrava essere la caccia al teppista: i motociclisti in giubbotto di cuoio nero correvano accompagnati dalle frenesie sessuali del rock n’ roll. I buoni padri ammonivano le figlie a non cadere preda della musica del demonio.
Qualche anno dopo, nel 1966, con Pet Sounds, l’america paranoica, ossessionata dal nemico esterno, dall’altro “rosso” e tentacolare, si scopre infestata da un male oscuro e ben più minaccioso. Scopre che si può esser giovani, bianchi, benestanti, beneducati, eppure infelici. L’alieno Brian Wilson canta una generazione di eterni adolescenti condannati ad essere per sempre spostati e introversi. Ragazzi che non sono fatti per il loro tempo, californiani brufolosi intrappolati nelle loro camerette dalla tappezzeria sfavillante. Piccoli nevrotici schiacciati dalla paterna innocenza del loro paese. Brian Wilson crea una categoria: il post-adolescente sfigato innamorato della vicina di casa. Eternamente fuori posto, con le braccia troppo lunghe e la voce incerta: il nerd senza computer, l’universitario prima di Berkeley. Troppo a modo per cadere nel turpe abbraccio del rock ‘n’ roll, ma troppo loser per passare dalla parte della tradizione. I Beach Boys furono l’ala morbida del rock, i surfisti che non sapevano andare in surf, i figli dei gruppi vocali ridotti ad infilare giri armonici elementari e destinati a vendere milioni di copie. I giovani che piacevano anche a mamma e papà.
Finché Brian Wilson non decise di mettersi a fare concorrenza ai Beatles, diventare produttore, e infarcire le sue linee armoniche e melodiche di suoni assurdi e di frammenti a bassa fedeltà. Una delle copertine più grottesche e aliene della storia accompagna le microsinfonie di Brian Wilson, il nevrotico che scriveva sotto dettatura di vocine misteriose. Con Pet Sounds i Beach Boys battono i Beatles sul loro stesso terreno: clavicembali spettrali, campanelli di bicicletta, treni in corsa. Il disco con le capre in copertina è un concept album che parla del passaggio impossibile dall’adolescenza all’età adulta. Una folgorazione istantanea, un mezzo flop di vendite, una pietra miliare che rappresenta ancor oggi il termine di paragone per chi cerca di fare del rock intelligente. L’influenza di Pet Sounds si stenderà sui decenni, portando Brian Wilson all’immortalità. Anche se subito dopo per lui comincerà un calvario di nevrosi e dipendenze. Lo zenith dei ragazzini per bene è l’inizio della fine.
Verrà l’era dei figli dei fiori e della Summer of love. Il paradiso diventa una scorciatoia chimica e un mito di fratellanza universale. Le scosse sciamaniche di Jim Morrison relegano in un angolo il ragazzino nevrotico. Mentre i ribelli di San Francisco – Greatful Dead, Jefferson Airplane - entreranno a far parte della mitologia buona del rock, aprendo la strada all’era clintoniana e alla liberazione tecnologica (Steve Jobs era del giro dei Greatful Dead), di fronte ai Beach Boys si spalanca un destino spietato e inquietante. Un altro Wilson, Dennis, l’unico Beach Boy che sapeva davvero fare surf, morirà annegato molti anni dopo, in circostanze mai del tutto chiarite. Era stato lui a far conoscere ai fratelli un ragazzo spiritato che scriveva canzoni: un certo Charles Manson. Il mito del paradiso californiano inizierà a morire con il massacro di Bel Air, sotto i colpi dei seguaci di Manson. I Beach Boys, dopo aver cantato le ragazze della California e le buone vibrazioni entrano paradossalmente a far parte della leggenda nera del rock. Brian Wilson diventa l’ombra di se stesso e le voci smettono di sussurragli armonie celesti Passeranno anni prima che un altro signore che sentiva le voci desse una scossa all’America, segnando con una sigla un altro salto epocale: quello della no wave newyorkese, musica di una generazione vuota che sceglie volontariamente di non essere riconciliata e che fa dell’autodistruzione una scelta consapevole. L’america di Brian Wilson finisce e rinasce con David Yerkowiz, che uccideva perché glielo aveva ordinato il Labrador del vicino. Era il 1978, e lui si firmava S.O.S. Son Of Sam.
by alunno Proserpio
Nel Nevada il governo lasciava che i venti radioattivi pettinassero i capelli impomatati degli elettori. Oggetti volanti non identificati disegnavano rotte luminose nei cieli del deserto, mentre il Rat Pack – Dean Martin, Sammy Davis Junior, e Ol’ Blue Eyes Sinatra – consumava whisky a fiumi nei locali dei Bravi Ragazzi. La guerra Fredda imponeva prove di evacuazione e incubi di dominazione rossa. Gli alieni erano lì, a minacciare il corpo sano e sportivo dell’America: Cose dell’altro mondo pronte a imporre alla gioventù americana piani quinquennali e schiavitù intergalattiche. Negli anni cinquanta l’unico diversivo dalla paura dell’atomica sembrava essere la caccia al teppista: i motociclisti in giubbotto di cuoio nero correvano accompagnati dalle frenesie sessuali del rock n’ roll. I buoni padri ammonivano le figlie a non cadere preda della musica del demonio.
Qualche anno dopo, nel 1966, con Pet Sounds, l’america paranoica, ossessionata dal nemico esterno, dall’altro “rosso” e tentacolare, si scopre infestata da un male oscuro e ben più minaccioso. Scopre che si può esser giovani, bianchi, benestanti, beneducati, eppure infelici. L’alieno Brian Wilson canta una generazione di eterni adolescenti condannati ad essere per sempre spostati e introversi. Ragazzi che non sono fatti per il loro tempo, californiani brufolosi intrappolati nelle loro camerette dalla tappezzeria sfavillante. Piccoli nevrotici schiacciati dalla paterna innocenza del loro paese. Brian Wilson crea una categoria: il post-adolescente sfigato innamorato della vicina di casa. Eternamente fuori posto, con le braccia troppo lunghe e la voce incerta: il nerd senza computer, l’universitario prima di Berkeley. Troppo a modo per cadere nel turpe abbraccio del rock ‘n’ roll, ma troppo loser per passare dalla parte della tradizione. I Beach Boys furono l’ala morbida del rock, i surfisti che non sapevano andare in surf, i figli dei gruppi vocali ridotti ad infilare giri armonici elementari e destinati a vendere milioni di copie. I giovani che piacevano anche a mamma e papà.
Finché Brian Wilson non decise di mettersi a fare concorrenza ai Beatles, diventare produttore, e infarcire le sue linee armoniche e melodiche di suoni assurdi e di frammenti a bassa fedeltà. Una delle copertine più grottesche e aliene della storia accompagna le microsinfonie di Brian Wilson, il nevrotico che scriveva sotto dettatura di vocine misteriose. Con Pet Sounds i Beach Boys battono i Beatles sul loro stesso terreno: clavicembali spettrali, campanelli di bicicletta, treni in corsa. Il disco con le capre in copertina è un concept album che parla del passaggio impossibile dall’adolescenza all’età adulta. Una folgorazione istantanea, un mezzo flop di vendite, una pietra miliare che rappresenta ancor oggi il termine di paragone per chi cerca di fare del rock intelligente. L’influenza di Pet Sounds si stenderà sui decenni, portando Brian Wilson all’immortalità. Anche se subito dopo per lui comincerà un calvario di nevrosi e dipendenze. Lo zenith dei ragazzini per bene è l’inizio della fine.
Verrà l’era dei figli dei fiori e della Summer of love. Il paradiso diventa una scorciatoia chimica e un mito di fratellanza universale. Le scosse sciamaniche di Jim Morrison relegano in un angolo il ragazzino nevrotico. Mentre i ribelli di San Francisco – Greatful Dead, Jefferson Airplane - entreranno a far parte della mitologia buona del rock, aprendo la strada all’era clintoniana e alla liberazione tecnologica (Steve Jobs era del giro dei Greatful Dead), di fronte ai Beach Boys si spalanca un destino spietato e inquietante. Un altro Wilson, Dennis, l’unico Beach Boy che sapeva davvero fare surf, morirà annegato molti anni dopo, in circostanze mai del tutto chiarite. Era stato lui a far conoscere ai fratelli un ragazzo spiritato che scriveva canzoni: un certo Charles Manson. Il mito del paradiso californiano inizierà a morire con il massacro di Bel Air, sotto i colpi dei seguaci di Manson. I Beach Boys, dopo aver cantato le ragazze della California e le buone vibrazioni entrano paradossalmente a far parte della leggenda nera del rock. Brian Wilson diventa l’ombra di se stesso e le voci smettono di sussurragli armonie celesti Passeranno anni prima che un altro signore che sentiva le voci desse una scossa all’America, segnando con una sigla un altro salto epocale: quello della no wave newyorkese, musica di una generazione vuota che sceglie volontariamente di non essere riconciliata e che fa dell’autodistruzione una scelta consapevole. L’america di Brian Wilson finisce e rinasce con David Yerkowiz, che uccideva perché glielo aveva ordinato il Labrador del vicino. Era il 1978, e lui si firmava S.O.S. Son Of Sam.
by alunno Proserpio
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