Paris, De Roubaix

Nel novembre del 1975 al largo di Tenerife, Canarie. Una barca come un puntino sul blu dell’acqua. Un uomo, biondo, con la barba e gli occhi azzurri, sta fumando una sigaretta e guarda l’oceano. È bello, con il viso affilato e un lampo di follia triste nello sguardo. Finisce di fumare, ma non butta in mare il mozzicone, non lo farebbe mai. Indossa le bombole, sopra la muta rossa. Si cala la maschera sul viso, stringe il boccaglio tra le labbra screpolate dal sole. Chiude per un attimo gli occhi e poi si butta all’indietro dal bordo della barca, e si immerge. Francois de Roubaix non ha mai studiato musica, è un autodidatta. Ma con le note riesce a generare quella rara magia che permette di rendere più belle le immagini che scorrono sullo schermo. Crea colonne sonore perfette, mescolando ritmi esotici e strumentazioni bizzarre. Fischi e percussioni, chitarre elettriche, suoni jazzati, musichette da vaudeville. E poi ampie ondate di sintetizzatore, a stendere veli bianchi e blu in sinfonie antartiche. Ha messo in musica il mare e il ghiaccio. Ha accompagnato Alain Delon, il Samurai dalla faccia d’angelo, verso la sua ultima missione, nel film di Melville. Ha scandito la febbrile ricerca dell’ultimo domicilio conosciuto, ritmando i passi dell’indagine di Lino Ventura. E poi ha fatto strane cose, da avventuriero: sigle per la televisione dello Zaire, canti sudamericani, danze per Belmondo gangster nel milieu marsigliese. Soprattutto, ha inventato melodie strampalate ma perfette, che entrano in testa per non uscire più. Fiati che incrociano il basso rotondo e la batteria secca, alla Gainsbourg. Archi da John Barry mescolati a rumorismi degni della musique concrete di Pierre Henry. Esotismo da Musèe de l’homme e da viaggi di Tin Tin, frammenti di mari del sud avvolti dal fumo del jazz che esce dalle caves esistenzialiste. Geometrie esatte, come quelle di vetro e acciaio che stanno rimodellando Parigi. L’avanguardia che esce dagli studi e si fonde nella luce e nei colori contrastati e saturi degli anni settanta. Ma anche echi di pop colorato, distorsioni psichedeliche, eleganze lounge, suoni che vengono dal profondo del tempo e della mente. Stilizzato e malinconico come poi saranno gli Air, ma con la sfrontatezza e il gusto della follia da cui forse verranno fuori grandi designer di oggetti sonori come i Daft Punk. E poi ha reso in musica l’Antartide e l’oceano, il cortocircuito tra il futuro e il passato più remoto, l’abbraccio delle acque reso attraverso un uso geniale dell’elettronica. Lo stesso abbraccio che non lo lascia riemergere, al largo di Tenerife, nel 1975.

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