Donne che corrono con i caproni: The Lords of Salem



Dopo aver celebrato e fatto implodere in un colpo solo l'horror postmoderno con lo splatter da freak show di La casa dei 1000 corpi, realizzato l'unico omaggio credibile a Peckinpah e al western nichilista degli anni settanta con The Devil's Rejects ed essersi confrontato con discreti risultati con un doppio remake ingombrante (Halloween 1 e 2), Rob Zombie realizza il suo film più ambizioso, The Lords of Salem (visto in anteprima italiana al Torino Film Festival).
C'è però un problema: per il barbuto Rob l'ambizione ha a che fare con strane forme di estasi cinematografica. E l'estasi, come sanno bene San Carlo Borromeo, Guillermo del Toro e Joel-Peter Witkin, ha sempre a che fare con due cose: il corpo e il rito. I rituali zombiani sono quelli di una subcultura pop imbevuta di musica metal e gotico americano, che si muove tra la riattualizzazione di una delle mitologie nere per eccellenza, quella delle streghe di Salem, e l'omaggio a una tipologia di film che Rob Zombie doveva tenere in qualche scaffale nascosto della sua videoteca: gli horror satanici degli anni '70.
E il corpo è quello della bionda mogliettina Sheri Moon Zombie, che diventa la diva assoluta di The Lords of Salem, e dall'occhio del marito viene celebrata, spogliata, adorata, fecondata e consegnata a un'orgia di visioni allegramente oltraggiose.
Sheri Moon è Heidi, dj radiofonica di Salem che riceve l'omaggio di uno strano disco dal potere ovviamente malefico. Da qui parte una discesa agli inferi condita da simpatiche e malvagissime streghe in pensione uscite da una puntata perversa di La signora in giallo, uno studioso di stregoneria con la barbetta, grottesche profanazioni delle alte sfere cattoliche, apparizioni di demoniache presenze nella cucina dell'appartamento. E roghi, capre, fuochi nella notte, autunno dell'anima e rinascita del principio femminile come in un libro di self-help wiccan in cui l'auto-realizzazione ha a che fare col metttere al mondo il figlio del diavolo.

Naturalmente tutti sappiamo che c'è una maledizione che aspetta dietro l'angolo, che le perfidie degli inquisitori di qualche secolo fa richiedono sanguinosa vendetta. E sappiamo che, trattandosi di una rielaborazione in salsa Rob Zombie di uno dei generi più deliranti e depravati di tutti i tempi - la satanexploitation post Charles Manson, Post Polanski e post Esorcista – i punti forti di questo film non saranno esattamente una logica stringente e una sceneggiatura di ferro.
E sappiamo infine che l'inizio di The Lords of Salem, per quanto suggestivo e ben fotografato (da Brandon Trost) sarà solo un trampolino di lancio per qualcosa d'altro. Questo qualcosa d'altro è un finale che incrocia in un calderone stregonesco le sequenza acide di 2001, i rituali mistico-trash della Montagna Sacra e le leccature cromatiche del miglior horror stilizzato e psichedelico (da Mario Bava a Dario Argento e Jean Rollin).
E qua le cose diventano interessanti: Rob Zombie prende il volo e si lancia in un confronto con tutte le correnti più estreme dell'arte contemporanea: dai corpi deformati del neobarocco freak di Witkin alle composizioni da coroner stiloso di Andres Serrano, dai videoritratti luminosi di Bob Wilson all'estetica da white trash in passerella delle foto di Terry Richardson, il tutto condito con il simbolismo esasperato di Matthew Barney e l'estetica black metal che negli ultimi tempi sta invadendo le gallerie di mezzo mondo. Tra crocifissi al neon, sacerdoti satanici con la faccia di cartapecora bavosa, Sheri Moon con il face painting da stregonessa norvegese, un teatro apocalittico che sta tra Eyes Wide Shut e Mulholland Drive, ci si prepara alla venuta di un anticristo che sembra un cicciobello deforme con problemi di gestione della rabbia.
Stronzata assoluta, passo falso, delirio di onnipotenza? Celebrazione delle Donne che Corrono Con i Lupi e i Caproni? Oppure ingresso in un pantheon di film genialmente sballati? Ai posteri l'ardua sentenza. Intanto tutti al cinema (sperando che esca nelle sale...), pronti ad ascoltare le reazioni di almeno metà del pubblico, che rivorrà indietro il biglietto. Mentre l'altra metà ringrazierà Rob e il suo genio visionario, che in un tempo di film esangui e prevedibili ci consegna all'estasi diabolica.

Problemi per un nuovo millennio


Come ogni anno ad ottobre si è svolta a Solvay la conferenza sullo stato della musica leggera nel mondo. Nonostante l'assenza giustificata di artisti quali Justin Bieber, Shakira, Tokyo Hotel, Sick Tamburo e Psy, non sono mancati i momenti divertenti e interessanti. In particolare l'edizione del 2012 si è aperta con un fuori programma: David Hilbert cantante e leader dei tedeschi Mathematics ha preso la parola ed ha proposto all'uditorio un elenco di 20 problemi:

1) Il folk rock italiano è veramente italiano?

2) La musica indie ha la forza di imporsi senza condizionamenti al mercato o è il mercato a condizionare la produzione di musica indie?

3) Ha senso parlare di generi musicali diversi senza collegarli a movimenti culturali diversi?

4) Il peso dell’eredità del rock progressive è una delle cause della mancata diffusione a grandi livelli della musica punk e di quella metal in Italia?

5) La funzione delle riviste musicali è venuta meno con l’avvento del web e dei suoi strumenti di condivisione e comunicazione?

6) Perchè la politica e l’impegno sono sparite dalle tematiche dei cantautori main stream italiani?

7) La pratica del remixaggio è la capacità dei DJ contemporanei di creare nuovi collegamenti tra realtà musicali esistenti oppure è il sintomo di una loro carenza creativa?

8) Le radio commerciali hanno un dovere di critica e quindi di scelta sulla musica che trasmettono?

9) La moda potrà avere ancora un influsso sulla musica come lo ebbe fino agli anni ‘70?

10) Perchè la musica brasiliana, nonostante molte hit internazionali, non è mai riuscita a diventare main stream fino all’arrivo del latin pop?

11) I reality musicali, limitando la gara all’esecuzione canora, non confinano l’idea di musicista a quella di “bella voce”?

12) Il rock demenziale è un vero genere?

13) Ci devono essere dei limiti alle tematiche che la musica può trattare?

14) Esistono musicisti che realmente possono essere considerati come ascolti fondamentali per chi si avvicina alla musica rock? E per la musica elettronica?

15) Il comportamento degli spettatori e il loro grado di coinvolgimento devono essere considerati nel giudizio nei confronti della performance del musicista?

16) Quale dovrebbero essere le politiche dei Festival musicali per superare il loro carattere di occasionalità?

17) Ci sono dischi degli anni 2000 che abbiano realmente ispirato ed influenzato musica, arte e costume dalla loro pubblicazione in poi?

18) Le cover band hanno un’utilità?

19) Qual’è il prezzo giusto per un CD? E per un Mp3?

20) Ha ancora senso il concertone del Primo Maggio?

Chi si voglia cimentare nella soluzione di uno dei problemi posti da Hilbert sappia che il premio per chi ci riuscirà consiste in un mp3 smaltato della canzone Gangnam Style a cappella realizzata dai Pentatonix.

Piccolo dizionario del cacciatore di fantasmi: O-S


O come Oneohtrix Point Never. Alias Daniel Lopatin, cresciuto a Chicago da genitori di origine russa. Utilizza vaste campiture sonore ricavate da sintetizzatori analogici, oscillando tra malinconiche aperture melodiche e lunghe sequenze di ronzii cosmici. Ricorda un certo Krautrock atmosferico e ripetitivo, a base di tastierone  a dilatazione lenta, ma è anche in contatto con il noise meno brutale (si senta Replica, del 2011) e con la circolarità ipnotica di gruppi americani come gli Emeralds. Il fatto che poi lavori su concept legati a misteriosi spedizioni spaziali di astronauti russi e invochi l’esistenza di "Zone senza gente" ci fa capire come un’unica corrente di strane alterazioni spazio-temporali attraversi di questi tempi i quattro angoli della terra, fino a lanciarsi come un unico segnale analogico, nel cosmo siderale.

P come The Prisoner, la serie per eccellenza per chi voglia capire cosa diavolo mettevano nel tè gli inglesi negli anni Sessanta. Lavaggio del cervello, droghe psicotrope, palloni bianchi come sorveglianti, spionaggio e scienza del comportamento, uomini identificati da numeri. Incubo di sorveglianza e trionfo del versante più “freak” della swinging London, questo capolavoro partorito dalla mente di Patrick McGoohan (che interpreta il protagonista) e George Markstein è semplicemente uno dei più stravaganti trip che si possano fare restando nei limiti della legalità. Tutto in un villaggio (realmente esistente in Galles) fatto di candide casette. In pratica, la partita a Croquet con i fenicotteri di Alice dilatata all’infinito in una casa di cura per funzionari dell’impero britannico.

Q come Bernard Quatermass, lo scienziato creato da Nigel Kneale per una serie di episodi televisivi negli anni '50 (che ha generato poi libri, film e serial radiofonici), è un'altra delle figure chiave per comprendere la genealogia dell’idea di Hauntology. In Quatermass & The Pit, adattato per il cinema nel 1967, gli scavi per la metropolitana di Londra portano alla luce un veicolo extraterrestre caduto sulla terra nei tempi antichi. Le creature extraterrestri generano negli esseri umani visioni fantasmatiche, fenomeni allucinatori, forme di possessione e di psicocinesi. Nell’episodio finale della serie cinematografica, The Quatermass Conclusion, del 1980, in un futuro caratterizzato da segni di disgregazione sociale strane evocazioni cosmiche vengono fatte nel cerchio megalitico di Stonehenge. Non dimenticherà queste atmosfere da degradazione thatcheriana, tribalismo post punk e culto folklorico new age Alfredo Cuaron nel suo I figli degli uomini. In generale, Nigel Kneale è uno dei numi tutelari della weirdness televisiva inglese e vale la pena ricordare anche The Stone Tape, del 1972, in cui un racconto di fantasmi si innesta su una riflessione sull'uso di strumenti di registrazione sonora e video. Puro distillato hauntologico.

R come Michael Reeves. Regista inglese morto molto giovane e autore di almeno due capolavori, Witchfinder General (1968), con Vincent Price nella parte di Matthew Hopkins, il generale incaricato di cacciare le streghe nell’era di Cromwell, e The Sorcerers (1967), stravagante storia di controllo mentale e omicidi in una londra tutta locali notturni e moto Triumph. È un po’ il simbolo dell’influenza del cinema dell’orrore e del soprannaturale sull’immaginario hauntologico. La campagna inglese nel suo potere perturbante e il rapporto con il periodo della guerra civile è lo stesso dell’altro capolavoro diabolico, Blood on Satan’s Claw, diretto da Piers Haggard nel 1970: per la serie, se trovi il teschio di una figura demoniaca mentre stai arando il tuo campicello, meglio lasciarlo dove sta. La campagna inglese oscilla sempre tra il sogno di un recupero pastorale e l'idea che sotto la tranquillità dei cottage immersi nel verde e dei ruscelli che scorrono placidi fra i pascoli si possano celare segreti che è meglio non svelare.

S come Mark E. Smith. Forse dal punto di vista strettamente musicale, il signor Fall, vale a dire l’uomo più scorbutico del mondo (oltre che la persona dotata della peggior pronuncia inglese tra coloro che camminano su questa terra) non ha molto a che vedere con tutto questo. Ma il suo modo di evocare l’orgoglio della working class in mezzo al declino dei paesaggi urbani attraverso vicende in cui vengono convocati l’orrore bucolico e folklorico dei romanzi di Arthur Machen, i Cut up di Burroughs e i fantasmi vittoriani di Montague Rhodes James lo rende degno del titolo di Gran Sacerdote della loggia mancuniana degli evocatori di spettri. E poi un disco di stregonerie sonore come Hex Enduction Hour in fondo non è tanto distante dagli esperimenti più dissonanti e immersivi di alcuni musicisti di oggi (penso a Caretaker, ad esempio). In fondo basta un titolo, "Psychik Dancehall", dal secondo disco dei Fall, Dragnet, per dire tutto.