Si inaugura qui una nuova metodologia di ascolto e di recensione basata sulla totale ignoranza degli autori delle tracce sentite. Partiamo con la compilation voluta e messa in piedi dagli Afterhours, Il paese è reale. Accogliendo in parte le perplessità del duffo sulla loro partecipazione al festival musicale più amato dagli italiani, decidiamo di navigare alla cieca nel mare magnum de Il paese è reale. Sappiamo che la prima canzone è quella che dà il titolo all’album e che è degli After. Riascoltata, si sente un Agnelli più intonato (nulla di sorprendente in questo), ma va detto che forse l’impatto sul palco dell’Ariston rendeva paradossalmente la canzone più intensa. Sarà stato per l’emozione di vedere il naso di Manuel come sempre schiacciato sul microfono ma questa volta di un palcoscenico d’eccezione o il piacere di vedere il maestro Gabrielli in tutto il suo splendore (nota: questo apprezzamento proviene più che altro da platipuszen), ma l’impressione è che su disco – soprattutto dal punto di vista del testo – la canzone si mostri per quello che è cioè un outtake dell’ultimo album… 2: non sappiamo chi sia quel vocione roboante, da Fossati imbalsamato, ma questa è chiaramente una canzone uscita da un sit in di sfigati del 1978. Solo io e il mio amore, ma non con questo signore, che si immagina barbuto e grasso, avvicinare le sbarbe nude al Parco Lambro. E non basta il violoncello a salvare la giornata. 3: si comincia a ragionare. Falsetti alla Battiato seppur con lamenti alla Biagio Antonacci, lievi accenti di piano, un leggero tocco alla Wyatt nella voce. Discreta. E la sensazione che ci siano troppi archi. A mmaestro Gabriè, che ce ccombini? 4: finalmente una canzone un po’ più movimentata. Interessante, anche se l’effetto Vasco Brondi buono e surreale è difficile da allontanare. Un po’ progressive con qualche strizzatina d’occhi di troppo al cantautorato italiano anni ’70. Vale comunque tutti i Tricarico del mondo. Il gioco tra pieni e vuoti è molto carino. L’avremmo voluta cantata dal Dalla più villoso e in canottiera. 5: che palle, che traggedia, lo scarso peso della morale, il peso scarso della morale… Ma possibile che con le cose buone che ci sono state ‘sta gente qua ha dovuto ascoltarsi tanto Fossati???? 6: una roba un po’ meno italiana (e non solo perché è cantata in inglese). Andamento da ballata degna di Bright Eyes, stavolta gli archi ci stanno e fanno il loro (un po’ alla Sufjan Stevens). Al passo con il resto del mondo, anche se in effetti non è proprio un mondo tanto nuovo. 7: base gainsbourghiana, venature electro vintage, voce suadente, un Gaber dei nostri giorni. California uber alles. 8: un basso nel vuoto, bell’inizio sempre e comunque. Atmosfere da spaghetti western che subito vira verso una psichedelia d’annata. Rarefatto ed evocativo, raga drogato come lo stacco centrale di The End dei Doors. Poi accelerazione, jazz rock. Perfetto come colonna sonora di un poliziottesco e infatti si intitola L’uomo dagli occhi di ghiaccio. Migliore in assoluto finora. 9: oh! Una chitarra elettrica! Vabbè sono il Teatro degli orrori, col vecchio al comando, meno plumbei e noise, cambi di tempo grandiosi, chitarra un po’ alla Television. Se non fosse una bestemmia, diremmo che sono più pop del solito. Non c’è storia, ma è evidente che non siamo imparziali. 10: tempo e pace scendono su di noi. Ancora Fossati! Ma stavolta mescolato a Battisti che “semina tempesta come una rondine”. Zarrillo indie? Zampaglione che “getta benzina sul fuoco”? 11: Ritmo! Hurrà! Una M.I.A. spezzettata e un po’ new wave, con una svolta electro pop. E poi arriva anche un pianoforte vagamente gotico. Atmosfere variabili. Molto carina e poi è la prima voce femminile da dieci canzoni a questa parte. Alla faccia delle quote rosa! 12: ora, questi sembrano un po’ il teatro degli orrori ma loro li abbiamo già sentiti: basso e batteria accoppiati che martellano. Sappiamo che nella compilation ci sono gli Zu e ci sa che li abbiamo trovati. I Melvins col sassofono possono essere solo loro. Molto metal, un po’ sludge, melmosi e dissonanti al punto giusto (e se poi non sono loro?...). Decisamente gli Zu in tutto il loro rumore. Sono l’Italia musicale nel mondo, altro che Laura Pausini. 13: altra cosa che sapevamo. Gli Zen Circus, ma in fondo chi altri potrebbe recitare con voce da Franti toscano una filastrocca debosciata? Rock blues primitivo, il feedback sale a coprire tutto, mai così cattivi. Se questi sono i prossimi Zen, son cazzi. Il gioco si fa duro. We Love You. 14: l’inizio sembra un po’ Perturbazione, ma il seguito no. E dal nostro punto di vista non è un bene. C’è poi un passaggio da Madame Butterlfy non male, quasi i Matia Bazar senza il Kitsch. Il testo però è stucchevole, molto PD (era Veltroni) nel deserto. 15: ancora anni ‘70 a manetta, ma con fiati e venature reggae. Interessante l’arrangiamento e quando la voce rallenta sul ritornello e tutto diventa progressive. Niente male, ma ripetitiva. 16: la voce fa un po’ emo (quello vero, vedi Washington anni ‘80). Bel gioco di batteria, la chitarra bassa molto post punk. Se diciamo Fugazi qualcuno si incazza? 17: atmosfere dilatate, vagamente Sigur ros, strati di suono come va di moda nel giro del post rock e nella rinascita dello shoegaze (My Bloody Valentine e compagnia). Nel complesso, si fa ascoltare. 18: fingiamo che il testo non esista. Fingiamo che la voce non esista. Rimane un violoncello, e se non esistesse nemmeno quello … 19: Ancora cantautorato, mano nella mano. Sembrano un po’ le Vibrazioni, quindi sono copie delle copie delle copie del passato. Ancora qualcuno che corre nel vento e chiama qualcun’altro bimba. Etereo arrangiamento anni sessanta, con chitarre slide. Chiusura nella lagna western, stavolta Bonanza, però.
Bene, il cd è finito, andiamo a vedere la tracklist.
platipuszen & alunno proserpio
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