Hip-Hop-Rock: Morrissey contro il Grunge


Altra pista, e partiamo da Morrissey. La musica è spesso una celebrazione dell’età verde e della libertà. Però basta dare un’occhiata alla tristezza delle classifiche per vedere cosa succede quando i sogni di libertà diventano grandi. I teenager arrabbiati di un tempo sono ora i clintoniani o i blairiani al potere, gli easy rider hanno i capelli bianchi. Il rock è diventato affare per gente dai 30 ai 60 anni. E soprattutto, la libertà, intesa come esuberanza sessuale, party che durano tutta la notte, bere e strafarsi, dire quello che si pensa, esprimere messaggi controculturali, è ormai una nicchia di mercato. Perciò Reynolds indica i germi della mutazione in tutti quegli atteggiamenti che rimangono alternativi rinunciando però alla visione affermativa dei baby boomer. Ed ecco qui gli Smiths, con un immaginario adolescenziale bloccato. Morrissey non vuole essere più libero, vuol poter essere inadeguato, timido, regressivo. Non rievoca i bei tempi andati e non sogna di diventare grande. Vuole stare in contemplazione dei suoi idoli per sempre e diventare, per i suoi fan un paradossale feticcio da adorare. Le copertine in bianco e nero degli Smiths non possono essere cool perché sono istantanee di un mondo che non può e non vuole crescere. Non c’è la solare euforia dei Beach Boys ma nemmeno la ribellione consapevole e cupa dei Joy Division o dei Fall. Morrissey è il ragazzo in bianco e nero, il cantore del grigio, di sentimenti poco rock 'n' roll come la malinconia, l’accidia, l’immobilismo. Il romanticismo come grazia ultraterrena e svincolata dal corpo. Il rossore aggressivo degli Smiths opposto alla retorica rock, impegnata o ribelle che sia. Contro lo spirito rock 'n' roll da Rolling Stone, le imbarazzanti esibizioni di ipersensibilità di Morrissey e le goffaggini dei nerd che non hanno nessuna voglia di realizzarsi. Per questo Reynolds rimane un grande critico inglese: alla fin fine i nerd organizzati che conquistano il mondo con il grunge lo rendono un po’ sospettoso. I Nirvana sono stati una grande esplosione di rumore in faccia al mainstream, la realizzazione del sogno proibito. Il video di Smells Like a Teen Spirit in heavy rotation su MTV è stato effettivamente un momento di rottura epocale. Ma quando i sogni si realizzano assomigliano agli incubi. La psicosi dissolutiva di Cobain (letta nell’autismo distruttivo di In Utero) è il contraltare del successo. Come dire, ci adattiamo, ma poi cosa succede? Al massimo diventiamo come i Pearl Jam, nipotini del songwriting di Neil Young e fratelli maggiori saggi della zero generation. Meglio allora l’incarnazione definitiva e lacerante dei Nirvana (anche se, musicalmente, Reynolds lo sa bene e lo dice, sono dei Black Flag più ripuliti o dei Black Sabbath meno tamarri). Ecco quindi il motivo della fondamentale antipatia di Reynolds per il grunge: in fondo è hard rock da uccello duro ma con l’uccello moscio. Ted Nugent o i Kiss in fase depressiva. Manca la ricerca musicale, è tutto troppo prevedibile, l’ascoltatore ha quello che si aspetta. Tenendo però a mente che per Reynolds non si tratta di fare avanguardia fine a se stessa. Occorre portare il rumore nel cuore del pop, mettere l’inciampo dove tutto scorre troppo liscio. Non deve essere una ricerca fatta con la testa, ma con il corpo. Al Grunge manca insomma il contatto con il lato black (c’erano critici che richiamandosi all’etica del duro lavoro e al Do It Yourself hanno parlato, in senso elogiativo, di redneck rock, e non a caso lo stesso look grunge è quello dell’America profonda che Cobain ha voluto combattere e che poi, in un certo senso, lo ha adottato). Il rock senza hip hop non va molto lontano. Le chitarre senza groove (quella misteriosa accoppiata basso batteria che riesce a far muovere le gambe e il culo) diventano noiose.
(continua)

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