Da un Halloween all’altro

Girare il remake di un film come Halloween, capolavoro di John Carpenter (che di capolavori ne ha firmati almeno tre o quattro), già sottoposto alle cannibalizzazioni dei sequel selvaggi negli anni ottanta e novanta, era una sfida non da poco. Per non uscire con le ossa rotte da un incontro ravvicinato con Michael Myers, il gigantesco e inarrestabile killer che, con il fido coltellaccio e il volto celato da una maschera bianca (che in origine replicava le fattezze di William Shatner) uccide più della peste, occorre avere le spalle larghe e un pizzico di incoscienza. Qualità che non mancano al barbuto Rob Zombie, già autore di due horror di culto assoluto: il delirante caleidoscopio pop di House of the 1000 corpses e soprattutto del fantastico Devil’s rejects (da noi, incomprensibilmente, La casa del diavolo). Quest’ultimo, mix tra horror estremo e western che riesce ad evitare i giochetti del tarantinismo di maniera per abbeverarsi alle sorgenti del mito nero del west e dialoga direttamente, nel cielo rosso sangue del mito, con il Mucchio Selvaggio di Peckinpah, è uno dei più grandi film estremi degli ultimi anni, e resterà probabilmente nella storia dell’orrore cinematografico accanto ai classici di Romero, Craven e dello stesso Carpenter. Zombie, allora, era l’uomo giusto per la missione Halloween. Ma facciamo un passo indietro: la storia del bambino che nella notte delle streghe massacra la sorella beccata a scopare col suo ragazzo e che poi, diventato grande, ritorna a casa per uccidere indifese babysitter, ha creato da solo un genere: quello dello slasher, in cui feroci maniaci, armati di preferenza con armi da taglio e implicitamente sessuofobi, massacrano allegramente branchi di teenager stupidi e fornicatori. È questa la pietra tombale che Rob Zombie si carica in spalla, decidendo di apportare subito una serie di tocchi personali. Il nuovo Halloween, rispetto al prototipo del 1980, sceglie di raccontare il contesto in cui la follia del piccolo Michael prende forma. Scelta rischiosa, perché buona parte del fascino dell’originale nasceva proprio dalla volontà di non dare spiegazioni: Michael Myers, di cui non si vede mai la faccia, tranne per un breve fotogramma quand’è ancora bambino, è in Carpenter una cieca macchina di morte, la personificazione di un orrore senza volto, quasi l’archetipo del bogeyman che cammina sulla terra. Halloween (quello del 1980) fa paura come fanno paura i morti viventi di Romero, perché non c’è anima dietro la maschera, solo il buio della mente che ha abbandonato connotazioni umane. Zombie invece racconta quello che c’è dietro, umanizza l’uomo nero, ce lo mostra bambino disadattato in una famiglia disfunzionale, che lascia poco a poco emergere il suo dolore fino a farlo diventare il dolore del mondo, che lui cerca di distruggere con tutto quello che gli capita sotto mano: mazze da baseball, forchette, bisturi, bastoni. E, naturalmente, coltelli. Insomma, Rob Zombie non ha perso il gusto di farci sbirciare tra le mura domestiche, e se la famiglia psicopatica dei Firefly dei suoi primi due film era la feroce vendetta di tutte le mandrie di freak del new horror, casa Myers è più che altro un concentrato di miserie: in quegli anni settanta, tra bulli e alcolizzati, le vie d’uscita dalla provincia americana non sembrano molte. O ti adatti, o diventi Kurt Cobain. Oppure impazzisci. Ed ecco il piccolo Michael Myers.

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