Hauntology 1: Visioni

Non credo ci possano essere dubbi. Potevo io imbattermi nel critico musicale Simon Reynolds, inventore fra l’altro del termine “post rock”, esploratore della scena dance e rave inglese e compilatore del tomo mastondontico sul post punk Rip it up and start again, senza fermarmi ad ascoltarlo? E, soprattutto, potevo incontrare il suddettto Reynolds mentre parla, in un’intervista su Blow Up, di una fantomatica Hauntology senza fermami a rileggere? Nel calderone dell’Hauntology, Reynolds mette una serie di cose davvero cool: pionieri dell’elettronica, film horror (e già io sono preso in trappola), pastoralismo pagano (che non so cos’è ma suona figo, sono sempre più nelle fauci della pianta carnivora…), un certo tipo di letteratura per l’infanzia, televisione anni ‘70. Ora, arrivato a questo punto, sono come Tarantino in una cineteca popolata da Zombie con dieci poliziotteschi proiettati in contemporanea e un funkettone sparato a palla. Praticamente in estasi cognitivo-percettiva. Quando vengono sparati nomi folli ed evocativi di questo genere, io inizio a vedere cose: gentiluomini inglesi in case di campagna con carte da parati a teiere disegnate, che setacciano lo spazio con radar primordiali. Oppure circoli megalitci popolati da fantasmi vestiti da motociclisti che complottano per riempire di polvere da sparo le cantine del parlamento. Qualcosa a metà strada tra The Wicker Man, Prigionieri della pietre e Zaffiro e acciaio. Il tutto su un televisore sfrigolante e valvolare, in bianco e nero rigorosamente sgranato. E poi vedo anche dell’altro. Quando le stelle si congiungono in questa maniera succedono un paio di cose. La prima andatela a vedere nel film il Presagio. La seconda è che anni di discussioni col Duffo si mettono come per magia a posto. Come nel negozio di Alice: ogni cosa al suo posto, a ogni posto la sua cosa. E la cosa sta tutta in questa parolina: Hauntology. Che oltre a farmi vedere cose strane uscite dal continuum temporale tra il ‘70 e il ‘78, nella campagna inglese, in cui evidentemente in un’altra vita devo essere vissuto, mi ha riportato in mente qualcos’altro. E ho verificato: hauntology è un termine coniato da qualcuno che conosco per averlo a lungo frequentato. Nei libri, intendo, anche se una volta l’ho visto da vicino. Diciamo che somigliava al Tenente Colombo, coi capelli bianchi e l’aria un po’ più intelligente di Peter Falk. Un algerino di stanza a Parigi. Uno che ha scritto La scrittura e la differenza, mandandomi fuori di testa una quindicina di anni fa. Insomma, qualcuno l’avrà già capito che sto parlando di Jacques Derrida, filosofo molto citato e un po’ meno letto. Perché questa idea di Hauntology viene da un suo libro, Spettri di Marx, in cui faceva i conti con il fantasma mai del tutto rimosso del marxismo e dell’utopia “rivoluzionaria” in un periodo storico (i primi anni novanta) in cui tutto sembrava già essere accaduto e l’idea di modernità aveva perso di senso. Ed è proprio l’ontologia degli spettri (to haunt, in inglese e hânter in francese significano infestare, nel senso degli spettri che infestano una casa o che prendono possesso di una persona). Insomma, voglio provare a fare un po’ di luce su questa scena piena di presenze inquietanti, tentando anche di rispondere a una questione che riguarda la mia attrazione per questo genere di cose. Perché trovo così attraente quella atmosfera british che unisce interni opprimenti, paesi di campagna immersi nel verde, sedute spiritiche tra vecchi gentiluomini, archeologi dilettanti che scoprono vestigia druidiche in piccoli paesini abitati da vecchiette misteriose, racconti per bambini vittoriani, fantascienza anni settanta, space music alla Joe Meek, psichedelia a base di teiere volanti e folletti, relitti da arte industriale, vecchie fabbriche dickensiane cadute in disuso, palazzi di cristallo e visioni steampunk? Insomma, cosa collega Alice, Le cronache di Narnia, la Psichedelia inglese degli anni sessanta, la Manchester derelitta dei Joy Division e Zaffiro e acciaio? E, soprattutto, cosa c’entra tutto questo con il Duffo? Direi che c’entra, dato che ha a che fare con il postmoderno e con Fukuyama, più volte oggetti di analisi e discussione davanti a uno spriz.
Continua…

1 commento:

  1. calza a pennello con l'articolo scritto sul mio blog, riguardo all'ultimo album di Oneohtrix Point Never, "Replica". Tra l'altro, ti cito anche.

    http://musicamista.wordpress.com/2011/11/16/oneohtrix-point-never-replica/

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