Dalla parte della bambina

L’incontro tra Alice e Tim Burton sembrava, sulla carta, una di quelle occasioni rare in cui un autore si può confrontare direttamente con l’oggetto del suo desiderio. Ma il desiderio, si sa, gioca brutti scherzi. Prima di tutto ha il vizio di sfuggire di mano e di eccedere l’oggetto stesso. Ecco allora che l’Alice in Wonderland di Tim Burton sembra più che altro confermare i dubbi che da un po’ di tempo mi assalgono di fronte ai suoi film. Non è che il buon Tim lo abbiamo sopravvalutato, che dopo Edward mani di forbice, Mars Attacks e Big Fish ci siamo convinti di trovarci di fronte a un grande autore e invece abbiamo solamente un buon rimasticatore di clichè e di immaginari incapace di evolvere realmente? Perché è questo, secondo me, il cuore del problema: l’arrested development di Burton è una condanna a ripetere sempre le stesse scene, le stesse vicende di orfani cresciuti non da genitori in carne e ossa, ma da figure in cartapesta fatte di spezzoni di cultura popolare americana. I marziani, i film di serie b, i cavalieri senza testa, i fabbricanti di cioccolato, i giganti, gli imbonitori da circo, i dischi volanti, i vampiri in bianco e nero, i freak lunari, i fantasmi industriali: Tim Burton rimette in scena all’infinito l’immaginario di Ray Bradbury, quello di bambini che girano per le città americane, con l’insegna del barbiere, il luna park, la salsapariglia, l’uomo tatuato che li terrorizza. È il gotico americano in gita al luna park, che per due o tre film fa gridare al miracolo, poi diventa un po’ noioso.
Se già la trasferta nell’espressionismo della Sposa cadavere faceva un po’ sbadigliare, Alice è un vero e proprio passo falso. Prendere un racconto che mette in scena il metodo nella follia, i paradossi del linguaggio e la vertigine della perdita d’identità e trasformarlo in un anacronistico (vista l’ambientazione vittoriana) elogio dell’autodeterminazione femminile fa pensare quantomeno che Tim di Alice non abbia capito nulla. Le devastanti apparizioni che fanno di Alice una discesa nel vortice del non senso allo stato puro (Tweeddledum e Tweddledee, il Jabberwocky) ridotte al rango di mostriciattoli Harrypottereschi. La partita di Croquet con i fenicotteri, il gioco in cui le regole cambiano a ogni colpo, è buttata lì come una simpatica gag per bambini (andate a vedere la partita di cricket di The Shout di Skolimowski per vedere quanto il gioco e la follia siano separati da una sottilissima barriera rituale). I giochi di parole, che nei due libri sono autentiche fratture che scompongono la linearità del linguaggio e annodano più sensi nella stessa parola creando un effetto vertiginoso, diventano delle buffe quanto incomprensibili formule da babbei. Le apparizioni lisergiche e inquietanti come fantasmi nella macchina della morale vittoriana sono fondali di cartapesta (date un occhiata all’Alice del 66 di Jonathan Miller per capire come creare la dimensione del sogno e del fantasma con poche inquadrature in bianco e nero e con un millesimo dei soldi spesi da Burton). Il signore del linguaggio Humpty Dumpty addirittura viene fatto scomparire.
Niente vertigine, niente sogno, niente visioni acide, niente malizia sensuale (vedere le foto di bambine di Lewis Carroll), niente Alice Disambientata (quella del '77 bolognese, di Celati e dell’ala desiderante del movimento). Niente politica, niente sfida onirica alla morale. Niente linee di fuga aperte dal non senso nel cuore dell’identità. Insomma, finito il film penso che Alice, quella vera, stia da qualche altra parte, non in questo elogio dell’emancipazione e dell’attivismo (Alice che va alla conquista della Cina è davvero un finale grottesco). Magari, per non andare tanto lontano, basta entrare nella sala in cui si proiettano la paranoia e la disintegrazione dell’identità di Shutter Island di Martin Scorsese, oppure recuperare Tideland di Terry Gilliam (con un’Alice white trash e l’angoscia vera della perdita e della solitudine) o addirittura Paura e delirio a Las Vegas (non a caso scandito da White Rabbit dei Jefferson Airplane). E per restare dalle parti di Gilliam, il recente Parnassus, con i suoi giochi di identità, è molto più Carrolliano dell’opera di Burton.
Stasera accendo la televisione e faccio partire l’Alice di Švankmajer, davvero spaventosa coi suoi fantocci meccanici. Apro un libro di Gilles Deleuze che si chiama Logica del Senso. E seguo il coniglio bianco: “Tutti questi capovolgimenti hanno una medesima conseguenza: la contestazione dell’identità personale di Alice. La perdita del nome proprio. La perdita del nome proprio è l’avventura che si ripete attraverso tutte le avventure di Alice… Ma quando i sostantivi e gli aggettivi cominciano a fondersi, quando i nomi che designano sosta e stato di quiete sono trascinati dai verbi in puro divenire e scivolano nel linguaggio degli eventi, si perde ogni identità per l’Io, il mondo e Dio”.
Down in the hole.

Nessun commento:

Posta un commento