Mi sono reso conto, osservando gli ultimi “casi” del mercato della musica rock che negli Usa e in Inghilterra le cose vengono gestite in modo diverso. In Inghilterra la capacità di creare “casi”, anche a livello mediatico, è molto più spinta. Se passiamo in rassegna le riviste musicali degli ultimi anni ci accorgiamo di un aspetto che accomuna band per altri versi molto diverse. Dai gruppi che hanno rilanciato il mix tra punk e funk nel XXI secolo, come Franz Ferdinand, Bloc Party o Maximo Park, a quelli che hanno riportato in auge, un paio di anni dopo, il rock chitarristico di marca albionica (Libertines e Arctic Monkeys) la stampa musicale e i media hanno ogni volta saputo creare e imporre un trend. La copertina del New Musical Express è sempre pronta a lanciare ogni mese la nuova sensazione e i talent scout setacciano My Space alla ricerca della next big thing a cui consegnare l’eredità del rock. La qualità di alcuni di questi gruppi è indubbia, ma non può non colpire la capacità del mercato musicale di creare attesa e di lanciare la band del momento ai primissimi posti della classifica. Dopo il fenomeno degli Arctic c’è stato, nel 2007, il caso dei Klaxons e della scena nu rave: ecco, questo è un perfetto esempio di etichetta giornalistica, che ha unito il mix tra chitarre e house di una canzone come From Atlantis to Interzone all’incrocio tra elettronica e simil metal degli Ener Shikari. L’effetto: orde di ragazzini in vestiti fluo che hanno costretto anche i negozi trendy a stravolgere i propri programmi riempiendo le vetrine di felpe col cappuccio. Intendiamoci, non si tratta di valutazioni sul merito di questi musicisti: gli Arctic Monkeys e i Franz Ferdinand sono grandi gruppi, i Klaxons stessi possiedono un selvaggio genio pop. Resto però il fatto che si tratta sempre di band con il look giusto, perfette per lanciare nuove mode e per dar vita a etichette sfruttabili in termini di marketing. Dopo gli Arctic, ad esempio, sono arrivati pochi mesi fa gli Enemy, che ripropongono la stessa combinazione di giovanilismo urbano, critica sociale, eleganza proletaria e chitarre scoppiettanti.
Diamo un’occhiata oltreoceano. Laggiù i casi musicali degli ultimi anni partono da presupposti completamente diversi. Innanzitutto, zero look. La riscoperta del folk che ha impazzato tra il 2004 e il 2006 è stata condotta da un folle barbuto come Devendra Banhart, assieme a due sorelle geniali nel manipolare musichette di carillon ma lontane dai clichè della bellezza da classifica (Coco Rosie) E poi ci sono state accozzaglie di freak usciti da campus universitari (Animal Collective) e cantautori spocchiosi con la faccia da eterni adolescenti (Bright Eyes). Spostandoci in Canada, gli Arcade Fire sembrano una comune di amish in gita, i Broken Social Scene una ciurma di dropout facinorosi e Feist una cantautrice anni settanta. Persino la scena più vicina al dancefloor è assolutamente lontana dai canoni del divismo postadolescenziale inglese. LCD Soundsystem è un perfetto esempio di antiglamour, per non parlare degli Hot Chip, monumenti al Geek Ignoto, o di intellettuali del ritmo come !!! o, più di recente, Battles. Tutta gente che suona in modo sopraffino, che annusa il groove lontano un miglio, che entra in classifica ma che non ha l’aria di essere stata studiata a tavolino dal PR di una major. Eppure vendono, e in certi casi parecchio, dettando legge sui suoni del futuro. La cosa vale anche per chi riprende il verbo indie facendolo evolvere in nuove direzioni. Già i “padri” erano poco alla moda (Beck, Grandaddy, Weezer, Eels), oscillando tra look da boscaiolo e occhiali con montatura da nerd. Oggi alle felpe dei Klaxons e al garage-gothic degli Horrors si oppongono le camice impiegatizie dei Battles e le barbe da freak degli Appalachi dei Band of Horses. La sensazione è ambivalente: da una parte sembra di essere truffati, più del solito, dalla febbre delle facce nuove che invadono le UK charts. Dall’altra, vedere gruppi del calibro degli Arctic Monkeys in cima alle classifiche è una bella cosa. In America, forse, il business del rock è relativamente poco redditizio rispetto ai giri grossi del pop, quindi le case discografiche investono meno, con l’effetto positivo di lasciare più autonomia e quello, decisamente negativo, di portare band storiche come i Grandaddy a stoppare la carriera per scarsa redditività. L’eterna lotta del rock, quella tra moda e autenticità, continua.
Diamo un’occhiata oltreoceano. Laggiù i casi musicali degli ultimi anni partono da presupposti completamente diversi. Innanzitutto, zero look. La riscoperta del folk che ha impazzato tra il 2004 e il 2006 è stata condotta da un folle barbuto come Devendra Banhart, assieme a due sorelle geniali nel manipolare musichette di carillon ma lontane dai clichè della bellezza da classifica (Coco Rosie) E poi ci sono state accozzaglie di freak usciti da campus universitari (Animal Collective) e cantautori spocchiosi con la faccia da eterni adolescenti (Bright Eyes). Spostandoci in Canada, gli Arcade Fire sembrano una comune di amish in gita, i Broken Social Scene una ciurma di dropout facinorosi e Feist una cantautrice anni settanta. Persino la scena più vicina al dancefloor è assolutamente lontana dai canoni del divismo postadolescenziale inglese. LCD Soundsystem è un perfetto esempio di antiglamour, per non parlare degli Hot Chip, monumenti al Geek Ignoto, o di intellettuali del ritmo come !!! o, più di recente, Battles. Tutta gente che suona in modo sopraffino, che annusa il groove lontano un miglio, che entra in classifica ma che non ha l’aria di essere stata studiata a tavolino dal PR di una major. Eppure vendono, e in certi casi parecchio, dettando legge sui suoni del futuro. La cosa vale anche per chi riprende il verbo indie facendolo evolvere in nuove direzioni. Già i “padri” erano poco alla moda (Beck, Grandaddy, Weezer, Eels), oscillando tra look da boscaiolo e occhiali con montatura da nerd. Oggi alle felpe dei Klaxons e al garage-gothic degli Horrors si oppongono le camice impiegatizie dei Battles e le barbe da freak degli Appalachi dei Band of Horses. La sensazione è ambivalente: da una parte sembra di essere truffati, più del solito, dalla febbre delle facce nuove che invadono le UK charts. Dall’altra, vedere gruppi del calibro degli Arctic Monkeys in cima alle classifiche è una bella cosa. In America, forse, il business del rock è relativamente poco redditizio rispetto ai giri grossi del pop, quindi le case discografiche investono meno, con l’effetto positivo di lasciare più autonomia e quello, decisamente negativo, di portare band storiche come i Grandaddy a stoppare la carriera per scarsa redditività. L’eterna lotta del rock, quella tra moda e autenticità, continua.
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