Il buono, il brutto e il kulako



Due uomini scendono da cavallo dopo un inseguimento, sfiniti. Si sono rincorsi per giorni e giorni, attraversando valli, fiumi e gole a picco. La polvere li ricopre, entrambi impugnano una pistola. Primissimo piano del primo, deciso a tutto, nei suoi occhi la determinazione del cowboy che ne ha viste di tutti i colori, primissimo piano sul viso dell’altro, altrettanto deciso. Uno scambio di occhiate, una successione di spari, la resa dei conti. Uno dei due cade a terra, allora l’altro gli si avvicina per controllare che sia veramente morto. E infatti non lo era. Come da copione, con un’abile finta l’uomo che un attimo prima era a terra, si rialza e spara a bruciapelo all’incauto avversario. Vince chi doveva vincere fin dall’inizio, l’eroe buono, tiriamo un sospiro di sollievo. Con calma ripone l’arma, si avvicina al suo fedele cavallo, getta un ultimo sguardo al nemico sconfitto e prima di risalire in groppa si deterge il sudore dalla fronte. Si toglie il copricapo con lo stella rossa e guarda l’immensa steppa distendersi davanti ai suoi occhi. Forse farà in tempo a consegnare il suo rapporto al commissario politico prima che si faccia sera e a ritornare dalla moglie nel suo villaggio collettivizzato. Un attimo. Che razza di cowboy è mai questo? Dove siamo? Dov’è John Wayne, perché quest’uomo ha dei tratti da orientale e sul suo cavallo sventola una bandiera rossa? Tranquilli, non è il frutto di un’allucinazione, è semplicemente un eastern.

Vabbè, ma cosa sono gli eastern? A metà fra i western americani e gli spaghetti western italiani, gli eastern russi furono la risposta della cinematografia sovietica a un’esigenza fortissima della propaganda di regime: come far passare negli spettatori l’idea che il comunismo crea degli eroi immortali facendoli allo stesso tempo anche divertire? Sembra che a Stalin stesso, che aveva attrezzato nella sua residenza privata una saletta di proiezione, piacesse moltissimo il genere e anche lui, come i suoi successori, doveva essersi reso conto che vedere sullo schermo la vita quotidiana in una miniera o in una fabbrica dell’uomo nuovo socialista non era la stessa cosa che vedere inseguimenti a cavallo attraverso le immense steppe dell’Asia Centrale. Primo, non era divertente. Secondo, non serviva la grande causa del comunismo.

Come ogni genere anche gli eastern seguono delle regole:

AMBIENTAZIONE
L’ambientazione è sempre la stessa: un qualche paese più o meno identificato dell’Asia Centrale. Da non sottovalutare in questa scelta il fatto che la geografia della regione si prestava benissimo allo scopo, con i suoi rilievi, i fiumi che scorrono fra le gole e la steppa immensa.

PERIODO
Anche il periodo è quasi sempre lo stesso: siamo fra gli anni ’20 e gli anni ’30, quando il potere sovietico in queste regioni era ancora tutto da costruire.

Ecco per esempio la trama di KONEC ATAMANA (La fine dell’Ataman, 1970) di Saken Ajmanov, che rispetta entrambi i criteri di spazio e tempo. Ambientato alla fine degli anni ‘20, il film racconta le vicende della Cekà (Commissione straordinaria per la lotta contro il sabotaggio e la controrivoluzione) durante la Guerra Civile in Kazakhstan. Il gruppo delle guardie bianche, guidate dall’ataman (capo cosacco) Dutov, spadroneggia lungo la frontiera sud-orientale. Questo gruppo di mercenari, che parlano lingue diverse e che sicuramente opponevano una resistenza molto forte al potere accentratore di Mosca, rappresenta un pericolo per il potere sovietico in Asia Centrale. Perciò Dutov va eliminato: il capo della milizia di Semirec’e, Kasymchan Cad’jarov, riesce a infiltrarsi nel quartier generale dell’ataman, nella città cinese di Sujdin. Per farlo entrare in contatto con il gruppo, viene simulato un arresto per tradimento e la successiva evasione. Dopo controlli accurati da parte dei mercenari, Cad’jarov riesce a parlare con Dutov, ma invece di organizzare l’attentato ai suoi danni lo avverte che c’è in atto un complotto per ucciderlo... Il personaggio di Kasymchan Cad’jarov è ispirato a un personaggio realmente esistito, Kasymchan Canyshev, figlio di un principe diventato rivoluzionario, doppiamente funzionale agli scopi della propaganda in quanto dimostra che anche dallo zarismo si può “guarire”…

Altro esempio: SED’MAJA PULJA (La settima pallottola, 1972) di Ali Chamraev, uno dei più grandi registi sovietici. Siamo nell’Uzbekistan del 1920, la guerra civile è terminata e il potere sovietico si è instaurato, ma bande di controrivoluzionari compiono ancora incursioni distruttive. Maksumov, comandante di un distaccamento della milizia, si trova ad affrontare una di queste bande, guidata da Chajrulla. Tradito e abbandonato dai propri uomini, Maksumov si getta all’inseguimento di Chajrulla, che sta cercando di raggiungere la riva opposta del fiume. Dopo 80 minuti di inseguimenti che tengono benissimo il passo con quelli dei western “veri”, la bellissima scena finale in cui Maksumov, a cui è rimasta un’ultima pallottola, la settima appunto, ha un’unica possibilità per riacciuffare il bandito in fuga.

PROTAGONISTI
I protagonisti pure sono scontati: i buoni sono soldati dell’Armata Rossa, i cattivi sono i bianchi, i ribelli locali, presentati sempre come sordidi figuri (simili ai messicani dei film americani), il cui unico interesse è il potere personale o la conservazione di un sistema politico tradizionale e arretrato. I buoni, invece, non guardano a queste cose, non cercano un riconoscimento personale, non interessa loro combattere per qualche dollaro in più, ma solo perché vengano sconfitte le sacche di pre-rivoluzione ancora presenti nei loro villaggi, per il bene comune, per il comunismo. Nel periodo d’oro della produzione di questo genere cinematografico, fra gli anni sessanta e settanta, Stalin, il fan dei western, era morto da un pezzo, ma il regime aveva ancora bisogno di creare modelli di perfezione e di continuare a perpetuare un’idea della storia delle repubbliche sovietiche (soprattutto di quelle dell’Asia Centrale, lontane da Mosca e per molti anni dopo la Rivoluzione attraversate da rigurgiti anti-bolscevichi) ai limiti della favola, in cui protagonisti assoluti sono i martiri del comunismo, che combattono per l’affermarsi del nuovo potere politico o per la sconfitta di usi e costumi antecedenti la Rivoluzione e tipici della tradizione zarista (la divisione in classi, l’esistenza dei contadini ricchi e degli speculatori, l’intromissione in politica dei pope ortodossi, ecc.) o della cultura musulmana (l’harem, il velo per le donne, ecc.). I soldati dell’Armata Rossa sono così buoni che si lasciano coinvolgere in pericolosissime vicende anche quando soldati non sono più.

È per esempio il caso di Suchov, il protagonista di BELOE SOLNCE PUSTYNY (Il bianco sole del deserto, 1969) di Vladimir Motyl. Siamo nel Turkmenistan degli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione. Suchov (una specie di Clint Eastwood russo), soldato dell’Armata Rossa, appena congedato, sta tornando a casa dalla moglie. Lungo la strada, incontra un distaccamento dell’Armata Rossa che gli affida nove donne liberate dall’harem di Abdullah, capo di una banda di controrivoluzionari. Abdullah viene a sapere che le sue donne sono con Suchov e si getta al suo inseguimento. Dopo varie traversie, Suchov rieuscirà a sconfiggere Abdullah: per le donne una nuova vita e per lui, che ha compiuto ancora una volta il proprio dovere, il ritorno a casa.

Spesso presente in questi film, il tema della lotta contro i retaggi della tradizione musulmana, vissuti da Mosca come un ostinarsi a rimanere attaccati a un passato medievale, fa oggi sorridere e ci sembra quasi uno scherzo della storia. In un momento storico come quello attuale in cui tanto si parla di radici culturali, di diritto di espressione religiosa e se sia giusto che le donne musulmane europee vadano a scuola con il velo, è strano pensare per esempio a un altro film sovietico del 1972, BEZ STRACHA (Senza paura), anche questo di Ali Chamraev. Non si tratta di un eastern in senso proprio, anche se molti dei temi dei film di cui abbiamo parlato finora sono presenti. Siamo nell’Uzbekistan del 1927. Kadyr, ex-soldato dell’Armata Rossa durante la guerra civile, diventato poi Commissario Politico del suo villaggio, combatte una difficile battaglia: portare una nuova cultura fra la sua gente, convincendola a vivere in un modo più consono agli ideali di uguaglianza della rivoluzione. La prima battaglia è quella dell’abolizione del velo per le donne, la parandja, ma i più tradizionalisti non sono certamente disposti ad accettare la nuova realtà e ci scappa anche il morto. (Che strano pensare che è appena del 30 marzo la notizia che a Taskent, capitale dell’Uzbekistan, ci sono stati dei morti per un attentato di probabile matrice islamica…)

Ma era proprio così che si erano svolte le cose? Davvero c’erano i buoni e “moderni” soldati dell’Armata Rossa da una parte e i cattivi difensori di un mondo morente e arretrato dall’altra? Nel Turkestan occidentale fra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, era stato attuato un meticoloso piano per rendere stanziali le popolazioni di pastori transumanti (collettivizzando le terre e uccidendo o deportando nei gulag i kulaki – contadini ricchi) e costringerli a diventare agricoltori. La steppa, però, sembra non fosse e non sia tuttora fatta per l’agricoltura, risultato dell’operazione: milioni di morti per fame e riduzione dell’80% dei capi di bestiame (durante la grande carestia del 1934). Uno dei periodi più brutti per la popolazione di tutta la regione, che consta principalmente di cinque repubbliche: Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan, Kyrghizystan e Kazakistan. La stanzializzazione forzata e la carestia erano il risultato di una politica accentratrice, tesa a fiaccare e a portare definitivamente quelle popolazioni sotto il controllo assoluto e diretto di un potere politico, il potere di Mosca appunto.

All’incirca quarant’anni dopo quel periodo storico sarebbe rivissuto nella grande cinematografia sovietica, anche attraverso i film di cui abbiamo brevemente parlato. Quella però che lo spettatore sovietico vide al cinema era un’altra Storia. Quello che vide furono gli eastern.

Insomma, mentre in tutto il mondo infuriava la guerra fredda e nel bel mezzo della steppa avvenivano cose gravissime (ricordiamo che proprio in Uzbekistan prosperava proprio al centro del mare di Aral, condiviso con il Kazakistan, uno dei maggiori centri di ricerca e produzione di armi chimiche e batteriologice di tutta l’Unione Sovietica, oggi abbandonato e che di lì a poco, nel 1979, sarebbe scoppiata una guerra terribile nel vicino Afghanistan) milioni di cittadini dell’Unione Sovietica venivano imbottiti di cinema di propaganda, di risultato estetico a volte indiscutibile e godibilissimo, ma il cui unico scopo era quello di sostenere un modello di cittadino, sempre pronto a sacrificarsi per il raggiungimento del bene comune e per l’affermarsi del comunismo sulla terra.

Oggi, le repubbliche dell’Asia Centrale non fanno più parte dell’Unione Sovietica, ma della Comunità degli Stati Indipendenti e continuano a dar fastidio al governo di Mosca (l’Uzbekistan, per esempio, fornisce le basi per i soldati americani impegnati contro i talebani in Afghanistan, da qui probabilmente l’attentato di Taskent). Decenni di potere sovietico sono stati spazzati via in un attimo, apparentemente senza lasciare tracce, purtroppo (perché qualcuna delle battaglie combattute dal comunismo ci sembra ancora tanto attuale, come quella per l’emancipazione delle donne). Quello che è rimasto nel ricordo di milioni di persone dell’ex Unione Sovietica sono però i volti degli eroi (o meglio degli attori che li interpretavano), uomini e donne, degli eastern, le loro battaglie, le loro passioni, la loro forza, forse in fondo il loro essere eroi per puro idealismo. Chissà se a Putin piacciono gli eastern..
by oscilloscopio azzurro

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