Senza sangue non si fa la storia

Quindi, andiamo a iniziare con un paragone che vorrei rendesse la sensazione di questa scoperta. Immaginate di trovare la telecamera di un anziano parente, che ora veste in compassato completo grigio, pesa centodieci chili e guida una Lexus, ma da giovane ne ha fatte di tutti i colori. Sviluppate la pellicola rimasta per quarant'anni celata nell'apparecchio e scoprite che contiene un filmino. Si intitola Nosferato no Brasil di Ivan Cardoso.
Esatto, il titolo è proprio questo, e il film è esattamente quello che un appassionato di deliri anni '70 potrebbe desiderare: Glauber Rocha meets Ze de Caixao. Basterebbe l'inizio per consegnare quest'opera all'eternità dei non morti: in un bianco e nero da primo Godard, dopo una didascalia che dice “Budapeste Século XIX”, lo spettatore viene catapultato nella tipica (si fa per dire) ambientazione austrungarica, a base di palme, terrazze di cemento alla Oscar Niemeyer e vialoni asfaltati. Al posto dei favoriti del caro Cecco Beppe, siamo però in presenza di un vampiro in piena regola, un baffuto freakkettone carioca, che, avendo perso per un soffio la summer of love di San Francisco, si mette a cacciare procaci ragazzotte vestito con il classico mantellone nero dalla fodera rossa. Alla fine di questa prima parte, trova per sua sfortuna un eroico sosia di Manuel Agnelli, il quale, armato di spadone e crocifisso, lo manda all'altro mondo. Solo che l'altro mondo parrebbe proprio essere il Brasile contemporaneo (il film è del 1971) e a quel punto, il nostro Nosferato, stavolta a colori, comincia a battere i quartieri bene di Rio alla ricerca delle sue prede preferite, le ragazze in vestitino a fiori o in microbikini. Dopo alcune uccisioni, scandite da lunghe suite di psichedelia post-tropicalista, assistiamo a una favolosa inquadratura della spiaggia di Rio, deserta, con i grattacieli che svettano sullo sfondo. Una visione che azzera in un sol colpo Romero e Ze de Caixao, entrando a buon diritto tra i tesori dell'Unesco. Poi il film (attenzione, dura meno di mezz'ora ma contiene sei o sette capitoli assolutamente sconnessi gli uni dagli altri e non è parlato) vira in un road movie vampirico, con macchinoni americani sulle polverose strade dei dintorni di Rio (forse una premonizione del misterioso incidente che costerà la vita al presidente Juscelino Kubitschek nel 1976), con una procace vampira e un damerino che pare preso dalla copertina dei Mistici dell'occidente dei Baustelle. Nel frattempo, il nostro Nosferato prende a camminare per la spiaggia in costume da bagno e mantellone, tra un tripudio di immagini da filmino delle ferie. Non manca poi un'orgia di sangue in cui tre vampiresse banchettano con un malcapitato barbudo che è chiaramente Zach Galifianakis prima di ingrassare e che sfoggia un paio di mutande bianche e rosse che D&G se le sognano. In mezzo vengono montati quadri surrealisti e disegni da fumettacci horror, mentre la colonna sonora implode e lancia raggi interstellari con i Rolling Stones di 2000 Light Years from Home. E a quel punto l'apoteosi: attraversando un cimitero di macchine il vampiro va a mordere una bella morettona, di quelle che pochi anni dopo andranno a sfarsi nei frenetici dancing days assieme a Sonia Braga. Una scritta dice che “Senza sangue non si fa la storia”. E la famiglia dei non morti si riunisce felice e contenta in una microstanza con bottiglione di whisky, tv di design che manda la tribuna politica, bikini su garotas dalla pelle ambrata, fumetti di serie Z. Poi Nosferato piglia l'aereo e se ne torna in Europa.
Se volete vedervi tutto questo senza sensi di colpa, potete dire che ne parla Caetano Veloso in Verità Tropicale, e che ci recita un suo amico, così magari ci fate anche bella figura con le amiche di sinistra che ascoltano solo cose un po' etniche e si commuovono guardando Parla con Lei di Almodovar.

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