Usciti dal mosaico perfetto del loro terzo disco, La malavita, i Baustelle diventano grandi sul serio. Rinunciando al citazionismo elegantemente radical chic di un modernismo nutrito a fumetti erotici, gruppi beat e immaginario anni cinquanta, entrano a capofitto in un presente plumbeo. Intendiamoci, i Baustelle rimangono un gruppo che gioca alla grande con il già sentito della tradizione italica: solo che qui invece di Patty Pravo e dello yè yè ci sono le amarezze di Ciampi e di De Andrè, numi tutelari di una discesa nella melma catramosa di un paese fatto di lavoro nero e capitalismo esploso. Rispetto al passato, in Amen la musica si fa molto più ricca e elaborata, quasi barocca: con abbondanza di archi e fiati, tra atmosfere western e chitarre mai così cattive. C’è da far indigestione, se non ci fossero le loro melodie, leggere e ipnotiche come sempre, pescate da qualche parte tra i sessanta e i settanta. E la voce di Bianconi si fa sempre più bassa e sacerdotale, mentre Donna Rachele non fa più la femme fatale per dimostrare di essere semplicemente una grandissima cantante (si senta Dark Room). I loro duetti si spostano lungo l’asse glamour che da Serge & Jane arriva a Lee Hazelwood e Nancy Sinatra: pop elegantissimo, condito da squarci elettrici e aperture orchestrali, che rilancia il gioco perfetto del maschile e femminile, tra schegge di Americana e la Milano allucinata di Bianciardi. E bianciardiano è tutto questo disco fatto di cinismi quotidiani e suicidi idioti sull’altare del mercato, solo che la bohème degli anni cinquanta ha lasciato il posto al disastro senza redenzione del giro di millennio. Quanto alle canzoni, ce n’è per tutti i gusti: Panico!, clone perfetto di These Boots Are Made for Walking, con voce cavernosa alla Giganti a dare le strofe; i cattivi maestri della giostra sacrificale di Baudelaire; la spietata Il liberismo ha i giorni contati; la sublime L’Aeroplano; il cannibalismo sociale alla Massaccesi di Antropophagus; la splendida Ethiopia, tra Maurizio Merli e le colonne sonore di Francois de Roubaix. E poi, ai due estremi, il singolo manierista Charlie fa il surf (ispirato a un’installazione di Cattelan) e il doloroso smontaggio generazionale di Alfredo, che schiera Vermicino, Woytila e le BR per raccontare un battesimo alla morte televisiva che ha segnato una generazione. Senza dimenticare le due ghost track in negativo, tra cui spicca Spaghetti Western, durissimo j’accuse al selvaggio west italiano, tra sfruttamento e caporalato. Gli arrangiamenti possono contare su ospiti di prim’ordine, tra i quali s’impone la pianista western-brechtiana Beatrice Antolini. Non fatevi ingannare dalla loro esposizione mediatica, dal loro avere le facce giuste per piacere un po’ a tutti. Bianconi, Bastreghi e Brasini sono parti di un corpo musicale destinato a segnare col suo incedere sempre più anarchico e sfrontato questi anni di iene e imperi in sfacelo. Amen.
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