Sicuramente pochissimi ricorderanno che quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario della nascita di Pierdomenico Sabatini, personaggio dall’intelligenza tanto eclettica ed originale, quanto, purtroppo, sottovalutata dai contemporanei.
Ottavo di dieci figli, nacque il 6 novembre 1859 in una modesta famiglia contadina della campagna occapidana, non distante dalla medievale Rocca di Monfrezzo, all’epoca sede di un importante complesso conventuale e assai frequentata meta di pellegrinaggio. La madre, analfabeta, costrinse il piccolo Pierdomenico e i suoi fratelli ad una rigorosissima disciplina religiosa, al limite dell’ascetismo. Grazie alla stima di cui essa godeva presso gli ambienti della curia, riuscì ad introdurre nel locale seminario gesuita ben tre dei suoi figli maschi, tra cui Pierdomenico, che potè godere di un’istruzione di ottimo livello nonostante gli scarsissimi mezzi dei suoi genitori. Questa esperienza giovanile influenzò moltissimo la giovane mente del Sabatini, portandolo ad un rifiuto radicale e precoce di ogni fede religiosa e di ogni bandiera. Lasciati gli studi anzitempo, si unì ad un gruppo anarchico del centroitalia, rinunciando alla cittadinanza e dichiarandosi apolide. Di più: precorrendo i tempi in modo sorprendente, giunse a voler negare qualsiasi forma di identità, da quella culturale a quella sessuale fino a rinnegare la sua appartenenza alla razza umana. “La prima prigione da cui dobbiamo liberarci, è la nostra identità” scrisse nel suo pamphlet “De humana negatione”.
Tale apertura di pensiero purtroppo non incontrò i favori dei contemporanei: nei suoi anni giovanili il Sabatini conobbe più volte il carcere e persino il manicomio criminale. Proprio durante il suo ultimo soggiorno nella prigione di Monfrezzo, strinse amicizia con il suo compagno di cella, Arturo Serbegnini, reduce da uno sfortunato tentativo di emigrazione in Brasile e, all’epoca, incarcerato per debiti. Scontata la pena, nell’inverno del 1890, il Sabatini partì alla volta del Sud America in compagnia del Serbegnini. Nei successivi cinque anni esplorarono insieme una zona della foresta equatoriale allora quasi completamente sconosciuta, nella parte centro-orientale del bacino del Rio delle Amazzoni. Di quell’epoca ci rimane una ricchissima collezione di appunti, disegni e reperti antropologici raccolti e catalogati dal Sabatini a seguito dei numerosi incontri con le popolazioni locali. Questo periodo di feconda esplorazione si interruppe bruscamente con la morte del Serbegnini, ucciso in circostanze poco chiare durante una ricognizione. Turbato dalla tragedia, Sabatini decise di stabilirsi presso la tribù degli Uigurì nell’Alto Paravanal, dove sposò Ahime, figlia minore del capoclan, che gli diede ben dodici figli. Risalgono a questo periodo gli studi sull’arte precolombiana e la monumentale opera “L’Io selvaggio” in cui approfondisce la ricerca filosofica e antropologica sull’origine dell’identità.
Una recrudescenza della febbre malarica contratta durante il suo vagabondaggio lungo il Rio delle Amazzoni, lo costrinse a tornare in patria,dove si spense, all’età di 47 anni, il 20 ottobre 1906.
Subito dopo la sua morte, gli scritti da lui lasciati furono oggetto di un acceso dibattito tra gli accademici. I suoi numerosi detrattori non gli perdonarono mai il fatto di essere completamente inventato, in ogni suo dettaglio, dal luogo di nascita fino alla sua intera biografia. Di contro, i pochi estimatori della sua opera argomentavano in favore della sua coerentissima scelta di non esistere nella realtà in quanto, come lui stesso aveva scritto nella prefazione de “L’Io selvaggio”: “non esiste libertà, quando si esiste”.
Ottavo di dieci figli, nacque il 6 novembre 1859 in una modesta famiglia contadina della campagna occapidana, non distante dalla medievale Rocca di Monfrezzo, all’epoca sede di un importante complesso conventuale e assai frequentata meta di pellegrinaggio. La madre, analfabeta, costrinse il piccolo Pierdomenico e i suoi fratelli ad una rigorosissima disciplina religiosa, al limite dell’ascetismo. Grazie alla stima di cui essa godeva presso gli ambienti della curia, riuscì ad introdurre nel locale seminario gesuita ben tre dei suoi figli maschi, tra cui Pierdomenico, che potè godere di un’istruzione di ottimo livello nonostante gli scarsissimi mezzi dei suoi genitori. Questa esperienza giovanile influenzò moltissimo la giovane mente del Sabatini, portandolo ad un rifiuto radicale e precoce di ogni fede religiosa e di ogni bandiera. Lasciati gli studi anzitempo, si unì ad un gruppo anarchico del centroitalia, rinunciando alla cittadinanza e dichiarandosi apolide. Di più: precorrendo i tempi in modo sorprendente, giunse a voler negare qualsiasi forma di identità, da quella culturale a quella sessuale fino a rinnegare la sua appartenenza alla razza umana. “La prima prigione da cui dobbiamo liberarci, è la nostra identità” scrisse nel suo pamphlet “De humana negatione”.
Tale apertura di pensiero purtroppo non incontrò i favori dei contemporanei: nei suoi anni giovanili il Sabatini conobbe più volte il carcere e persino il manicomio criminale. Proprio durante il suo ultimo soggiorno nella prigione di Monfrezzo, strinse amicizia con il suo compagno di cella, Arturo Serbegnini, reduce da uno sfortunato tentativo di emigrazione in Brasile e, all’epoca, incarcerato per debiti. Scontata la pena, nell’inverno del 1890, il Sabatini partì alla volta del Sud America in compagnia del Serbegnini. Nei successivi cinque anni esplorarono insieme una zona della foresta equatoriale allora quasi completamente sconosciuta, nella parte centro-orientale del bacino del Rio delle Amazzoni. Di quell’epoca ci rimane una ricchissima collezione di appunti, disegni e reperti antropologici raccolti e catalogati dal Sabatini a seguito dei numerosi incontri con le popolazioni locali. Questo periodo di feconda esplorazione si interruppe bruscamente con la morte del Serbegnini, ucciso in circostanze poco chiare durante una ricognizione. Turbato dalla tragedia, Sabatini decise di stabilirsi presso la tribù degli Uigurì nell’Alto Paravanal, dove sposò Ahime, figlia minore del capoclan, che gli diede ben dodici figli. Risalgono a questo periodo gli studi sull’arte precolombiana e la monumentale opera “L’Io selvaggio” in cui approfondisce la ricerca filosofica e antropologica sull’origine dell’identità.
Una recrudescenza della febbre malarica contratta durante il suo vagabondaggio lungo il Rio delle Amazzoni, lo costrinse a tornare in patria,dove si spense, all’età di 47 anni, il 20 ottobre 1906.
Subito dopo la sua morte, gli scritti da lui lasciati furono oggetto di un acceso dibattito tra gli accademici. I suoi numerosi detrattori non gli perdonarono mai il fatto di essere completamente inventato, in ogni suo dettaglio, dal luogo di nascita fino alla sua intera biografia. Di contro, i pochi estimatori della sua opera argomentavano in favore della sua coerentissima scelta di non esistere nella realtà in quanto, come lui stesso aveva scritto nella prefazione de “L’Io selvaggio”: “non esiste libertà, quando si esiste”.
Nessun commento:
Posta un commento