Hauntology 3: Derrida vs. Fukuyama

Derrida usa il termine Hantologie per contrastare, tra l’altro, la nota teoria di Francis Fukuyama sulla fine della storia (che ultimamente il filosofo americano ha comunque rivisto, ma che rimane molto diffusa, ad esempio tra i think tank neocon). Fukuyama sosteneva, riattualizzando Hegel, che siamo arrivati alla fine del percorso di progresso storico e che il sistema economico-sociale che rappresenta questo compimento è rappresentato dalle democrazie capitaliste. Se fino a ieri poteva aver senso pensare a un processo di sviluppo e progresso storico che ci facesse sperare in un domani migliore dell’oggi (è forse la definizione stessa di modernità), oggi questo percorso ascendente è arrivato alla fine e che si tratta quindi di “mantenere” lo status quo. Come dire che dopo la caduta del Muro i conflitti non hanno più senso di esistere, che non cambierà più nulla di sostanziale, che al massimo gli stati che incarnano (come in una versione hollywoodiana dello spirito assoluto di Hegel) questa specie di compimento della storia, possono svolgere un ruolo di “polizia mondiale”. Si tratta solo di dirigere il traffico, magari con qualche bomnbardamento qua e là. In fondo, non può accadere niente di nuovo, tutto è già stato detto. Almeno fino a quando a qualche fantasma rimosso con la faccia da arabo non viene in mente di prendere lezioni di volo e di dirigersi a tutta birra verso un paio di grattacieli…
Derrida, che viene erronamente inserito nella categoria dei postmoderni, parlando di Hantologie rifila in realtà una bella spallata al postmodernismo. Perché anche il postmodernismo predica la fine dalla storia, anche se in versione euforica e multicolore. Ci dice che non c’è più progresso, che rimane solo da ripetere le cose, magari ammiccando e scherzandoci su. Possiamo solo dedicarci a ricombinare le parti della nostra tradizione culturale. Non possiamo più girare un noir, ad esempio, possiamo solo fare un noir citando i film del passato. Se da una parte abbiamo Fukuyama, dall’altra potremmo metterci Tarantino. Che ovviamente è molto meglio, se non fosse che i due discorsi non sono poi così distanti. Tutti e due credono che la storia abbia avuto un’evoluzione, che questa evoluzione si sia fermata, che possiamo solo divertirci a disporre i mattoncini della storia in modo diverso, ma non troppo. Tarantino potrebbe essere visto come la versione “liberal” di Fukuyama.
Per Derrida le cose stanno in modo diverso. Intanto, se non c’è un punto di partenza fisso (ogni inizio è per Derrida già una rimozione, il che si traduce in una serie di affermazioni apparentemente ermetiche ma in realtà abbastanza logiche, per cui in origine c’è la traccia, non esiste un punto di partenza assoluto, l’identità è già una differenza, dietro lo spirito c’è lo spettro). Quindi non ha senso parlare di “fine della storia”. La storia non può finire perché non è mai iniziata, e ogni volta che cerchiamo di mettere la parola “the end” sul film della storia, in realtà stiamo rimuovendo qualcosa. Proprio come Fukuyama rimuove lo spettro della “rivoluzione” o del cambiamento sociale, che, una volta cancellato, riappare in forma violenta.
Continua...

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